Ha vinto il più importante riconoscimento letterario al mondo. In esclusiva per L'Espresso, anche in edicola da domenica 13 ottobre, il suo invito forte alla lettura: «vaccino contro una visione del mondo creata ad hoc»

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Sono Olga Tokarczuk, poetessa e scrittrice polacca, e lo scrittore e drammaturgo austriaco Peter Handke i due vincitori del Premio Nobel della Letteratura, rispettivamente per il 2018 e per il 2019, appena assegnato a Stoccolma. Autrice de “I vagabondi”, romanzo pubblicato lo scorso anno da Bompiani, con il quale ha vinto il Man Booker International Prize, Tokarczuk è femminista, attivista, con studi in psicologia alle spalle. Ed è legata al tema del viaggio come disponibilità allo sradicamento e condizione di vera apertura verso gli altri.
È la quindicesima donna a vincere il Nobel, per un anno – il 2018 - in cui il riconoscimento fu sospeso dopo lo scandalo per molestie di un giurato dell'Accademia di Svezia. L'ultima scrittrice ad aggiudicarselo era stata, nel 2015, Svetlana Alexievich.  


Ecco il suo intervento

Non c’è da stupirsi che da secoli Hermes sia il dio, il patrono e il protettore dei traduttori. Basso di statura, agile, veloce, scaltro, arguto e in fuga per le vie del mondo; per dirla con le parole di Plutarco, «il più piccolo e il più furbo degli dei». Lunghi i capelli, il copricapo alato e in mano il caduceo, il sesso non del tutto definito, egli è ovunque. È il dio della sintesi, dell’associazione di fatti distanti, dell’ingegno e dell’opportunismo, il dio dotato di senso dell’umorismo e incline alla menzogna e all’imbroglio. È lui che ci accompagna nei viaggi ed è sua la voce che ci parla dalle guide turistiche e dai dizionari. Ci conduce per luoghi impervi, insegna a leggere le mappe, fa oltrepassare i confini. Ma soprattutto appare là dove si verifica un qualsiasi atto di comunicazione. Quando apriamo la bocca per trasmettere qualcosa a un’altra persona - Hermes è lì. Quando leggiamo il giornale, navighiamo in Internet, mandiamo sms - lui è lì. Se mai oggi sorgesse il suo tempio, ospiterebbe stampanti, telefoni, fax e fotocopiatrici.
Uno dei nomi a lui attribuiti è Hermeneutes: Interprete e Traduttore. Sacerdoti e sacerdotesse del suo tempio sono i traduttori, il cui lavoro tocca l’essenza di questa divinità: mette in comunione le persone attraverso le lingue, e al di là di esse, e fa transitare l’esperienza umana da una cultura all’altra.

ELOGIO DELLA NON-COMPRENSIONE

Prima di procedere però, vorrei tessere, con un certo gusto per la contraddizione e il paradosso, l’elogio della non-comprensione.
Incomprensione significa solitudine e una sorta di distanza, che solitamente accompagna la mancata conoscenza del contesto. È la forma più elementare di introversione. La nostra cultura ci educa alla comprensione, dandoci così la possibilità di controllare il mondo. L’uomo che non comprende è privato della possibilità di controllo.
Ci sono, tuttavia, dei momenti - e si verificano soprattutto nel corso di viaggi in paesi lontani - in cui l’incomprensione diventa un’esperienza liberatoria. Ecco che capitiamo in un luogo del tutto sconosciuto, in cui tutto appare diverso, nuovo e incomprensibile. Gli odori sono sconvolgenti, i colori hanno sfumature e intensità insolite, respiriamo un’altra aria e la temperatura ci sorprende. Il linguaggio del corpo di chi incontriamo ci confonde, la lingua sembra impenetrabile e l’alfabeto ricorda una collezione di piantine esotiche destinate a un giardino roccioso.
Dopo un istintivo attacco di panico, a poco a poco il nostro respiro torna regolare e il cervello inizia a lavorare intensamente per reperire, nella nuova realtà, qualche frammento che faccia da appiglio, così che la nostra mente, simile a un motore ingolfato, possa ripartire. Dal caos dei dati pesca, con sollievo, la parola “bike” o il nome di una multinazionale, convincendosi, dunque, che siamo sempre nello stesso mondo, seppure in una sua differente versione.
Dopo alcuni giorni di sterile lavoro e di ricerca del significato, della reiterazione dei segni, di un loro collegamento a una qualche situazione, il cervello si calma, forse si arrende di fronte alla mole di stimoli incomprensibili, e cade in uno stato simile alla meditazione. Cessa di vedere i caratteri come supporti dell’informazione, soffermandosi invece su essi come su un disegno, qualcosa di organico, naturale, una forma non correlata ad alcun significato. […]
Penso che ciascuno dovrebbe sperimentare questo meraviglioso stato di innocenza, uno stato che precede la comprensione fondata sulla ragione e sulle reti di collegamenti, relazioni, associazioni che disciplinano la nostra conoscenza del mondo, dandoci l’illusione che sia tutto sommato stabile - retto da leggi immutabili e ripetibili - e affidabile. Al contempo, questo stato ci mostra chiaramente che possono esistere e funzionare mondi basati su principi diversi dai nostri, senza che per questo siano migliori o peggiori. […]

LA TRADUZIONE COME SALVATAGGIO

C’è una storia bellissima che i traduttori dovrebbero conservare nel proprio dossier mitologico perché dimostra che sono stati loro a salvare il mondo civilizzato.
Quando l’Impero Romano cadde sotto la spinta dei barbari che saccheggiavano l’Europa, si pensò che tutto il patrimonio intellettuale dell’antichità sarebbe scomparso. In effetti, molto andò irrimediabilmente perduto, ma il fatto che molto altro si sia salvato è in gran parte merito dei sovrani arabi della dinastia degli Abbasidi, che a partire dall’VIII secolo regnarono su vasti territori, nel bacino del Mar Mediterraneo e nel Vicino Oriente. A Baghdad, capitale del loro regno, fondarono una grande accademia specializzata nella traduzione. Qui, schiere di traduttori volgevano in lingua araba tutto ciò che proveniva dai territori dell’impero e capitava loro sottomano. Gli Arabi gradivano soprattutto i Greci e le loro opere scientifiche sulla geografia, l’astronomia, la medicina, ma anche l’astrologia e la magia; traducevano inoltre opere provenienti dall’Egitto, dall’India e dalla Persia. Ad alcuni di noi dispiacerà il fatto che non fossero attratti né dalle opere storiche né dalla poesia. Non tradussero neppure testi teatrali ed è per questo che molti di essi sono scomparsi per sempre. Sia come sia, mentre l’Europa era ancora avvolta dal fumo e dalla puzza di bruciato dei resti incendiati della civiltà, i suoi testi più importanti svernavano in un’altra lingua sugli scaffali delle biblioteche arabe. […]
Nel XII secolo la situazione cambiò e una storia simile si ripeté sulla sponda opposta del Mediterraneo. La reconquista prese una brusca accelerata: gli Arabi, cacciati dall’Europa, lasciavano alle proprie spalle città ricche e bellissime, una musica straordinaria e una cultura altamente sviluppata. E biblioteche. Dietro ai carri dei conquistatori muovevano monaci e altre Genti del Libro, disinteressati a qualsiasi ricchezza che non fossero rotoli e codici. Ora - al contrario - c’era bisogno di traduttori dall’arabo alle lingue cristiane.
L’arcivescovo della riconquistata Toledo fondò una famosa scuola di traduttori, i quali, simili ad archeologi, recuperarono all’Occidente un’opera dopo l’altra. Spesso traducevano dall’arabo al castigliano e solo dopo dal castigliano al latino. Il latino non lo amavano: lo consideravano una lingua ammuffita come gli acquedotti del caduto Impero Romano. So che vi sarà difficile ricordare i nomi di questi traduttori, ma credo che oggi le strade delle città europee dovrebbero essere intitolate a: Adelardo di Bath, Roberto di Chester, Alfredo Anglico, Daniele di Morley, Gerardo di Cremona, Burgundio di Pisa, Giacomo da Venezia… Prima che questi illustri uomini realizzassero le traduzioni, l’Occidente conosceva soltanto due (!) opere filosofiche di Aristotele e appena una di Porfirio, così come di Platone (il Timeo). La traduzione dell’opera omnia di Aristotele e di centinaia di altri libri greci e arabi portò un rivolgimento totale nella scienza e nella filosofia medievali. Fu la rivoluzione che permise alla civiltà occidentale di rimettersi in piedi.
Quando i traduttori non capivano il significato di una parola la trascrivevano in caratteri latini a partire dalla pronuncia araba. Così facendo, trasferirono in Occidente concetti prima sconosciuti. Volete sapere quali?
Alambicco, algebra, algoritmo, alcali, borace, zirconio, cifra, elisir… e centinaia di altri. Dio di questa inattesa ricchezza, ricordiamolo, è Hermes. […]

TRICKSTER

Hermes è anche un tipico trickster. Nessuno, meglio di lui, è capace di ingannare e mentire.
Qualche tempo fa, lavorando al mio nuovo libro, mi misi a studiare i testi scritti sulle tavolette cuneiformi. Purtroppo, molti dei più antichi racconti incisi sulle tavolette si sono conservati solo in traduzione, in numerose lingue e talvolta minori. Spesso, scavi condotti in maniera disordinata, situazioni politiche di tensione o guerre generavano confusione. Decine di tavolette di un unico testo, ad esempio, si sono sparpagliate tra i musei di tutto il mondo: una situazione simile a un puzzle, con i più antichi testi dell’umanità dispersi per ogni dove. Studiati e tradotti in varie lingue, hanno dato vita a una polifonia, creando molte versioni dello stesso racconto, narrate con tempi e voci differenti sotto cieli sempre nuovi. Anche così agisce Hermes, spargendo idee e racconti per tutto il mondo. […]

SE HERMES CI DONA UNA LINGUA, DONA A CIASCUNO LA PROPRIA

La letteratura come atto di comunicazione inizia quando firmiamo un testo con il nostro nome e cognome, esprimendo con le parole la nostra esperienza irripetibile, correndo al contempo il rischio che essa risulti incomprensibile, che venga ignorata, che susciti rabbia o disprezzo. La letteratura è, dunque, quel peculiare momento in cui la nostra lingua più personale si incontra con le lingue degli altri. […]
Si suppone che il primo essere umano a firmare un testo letterario, e cioè il primo scrittore, sia stato Enheduanna, sacerdotessa sumera della dea Inanna. Il suo “Inno a Inanna” è un commovente lamento dell’uomo che si sente abbandonato da dio. Grazie alla traduzione, che per sua natura modernizza il linguaggio, il lettore contemporaneo trova il testo comprensibile e toccante. Questa drammatica e intima espressione di abbandono, solitudine e delusione, scritta circa 5000 anni fa (!), può essere vissuta in profondità da chi abita un mondo completamente diverso, dove le lingue ufficiali di allora sono da tempo (e letteralmente) ridotte in polvere.
La lingua privata si forma nel corso di tutta la nostra vita come combinazione della lingua dei genitori, dell’ambiente circostante, di letture, studi e della propria irripetibile individualità umana. Qualcosa che è unico e ci identifica, come le impronte digitali.
Le lingue collettive sono strade battute, mentre le lingue individuali fungono da sentieri solitari. Quelle collettive sono strumenti condivisi e a servizio della società, funzionali a una comunicazione il più possibile comprensibile, ma soprattutto capace di trasmettere un contenuto che produca immagini della realtà simili o identiche. In questa comune realtà le parole richiameranno oggetti e fenomeni concreti, esistenti o immaginati. Da quel momento in poi, la lingua comune e l’immagine della realtà si rafforzeranno reciprocamente.
La storia e la contemporaneità ci insegnano che nella creazione di lingue collettive politicamente connotate avvengono furti e rapimenti di parole. Una parola neutra, magari un po’ dimenticata e dal significato arcaico, se estratta dalla soffitta può finire sulle bandiere e nei programmi elettorali. Ne è un esempio il concetto di “nazione”. Salta fuori che, privato del suo contesto storico e scosso dalla polvere, può benissimo servire alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Viene a tal punto introiettato che persino coloro che non professano il nuovo ordine non possono più adoperare questa parola, apparentemente innocente, perché ormai carica di nuovi significati e pericolosa.
Ovviamente, una lingua collettiva deve esistere perché si possa in qualche modo comunicare in una realtà in costante negoziazione. È necessario esista una certa dimensione linguistica del legame sociale; spesso bastano le più semplici espressioni fraseologiche e idiomatiche per dare un senso di familiarità e di comunità. […]
Non c’è malattia più terribile di quella che colpisce l’uomo che perde la propria lingua individuale e adotta, come privata, la lingua collettiva. Ne soffrono impiegati, politici, accademici, ne soffrono anche i sacerdoti. Unica, possibile, terapia diventa allora la letteratura: frequentare le lingue degli autori vaccina contro una visione del mondo creata ad hoc e considerata in modo strumentale. È un potente argomento a favore della lettura (anche dei classici), perché la letteratura mostra che un tempo le lingue collettive funzionavano diversamente e pertanto hanno dato origine a diverse visioni del mondo. È per questo che vale la pena leggere: per accorgersi di queste visioni differenti e convincersi che il nostro è solo uno dei mondi possibili, e di certo non ci è dato una volta per tutte.
I traduttori e le traduttrici hanno la stessa responsabilità di scrittrici e scrittori. Entrambi vigilano su uno dei più importanti fenomeni della civiltà: la possibilità di trasmettere la più intima esperienza personale agli altri e la messa in comunione di questa esperienza nel sorprendente atto creativo della cultura. Il loro patrono è Hermes, nella sua incarnazione di dio della comunicazione, dell’unione e delle relazioni.
Koinos Hermes! Lunga vita alla comunità di Hermes!

Traduzione di Giulia Randone
Copyright © Olga Tokarczuk 2019
Reproduced by permission of the author
c/o Rogers, Coleridge & White Ltd., London
Il testo è parte di una Lezione tenuta a Danzica, all'inaugurazione della IV edizione degli Incontri letterari "Odnalezione W thumaczeniu".

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