La vita iperconnessa riporta alla ribalta la "malattia" diagnosticata da Marx e dalla Scuola di Francoforte. E torna lo sfruttamento: filosofi e sociologi spiegano perché

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«Alienati!», taglia corto la ragazzina dopo aver scannerizzato con lo sguardo il vagone, prima di passare ad altro. E la parola suona strana lì sotto, sulla metro B di Roma. Così improvvisa, come sbucata dagli anni Settanta, quando una generazione imbevuta di Marcuse e Fromm ne faceva uso e abuso.

L’amico che ha sollecitato la sentenza - 15/16 anni, chitarra in spalla a mo’ di zainetto - annuisce. «Guardali. E poi parlano di noi...», le aveva detto osservando i passeggeri a capo chino sui loro smartphone, come un plotone di formichine digitali compatto, con pochissime diserzioni. I ragazzi scendono, il vagone continua a sferragliare in direzione Laurentina. E con loro sembra dissolversi anche quella parola, “alienati”, assorbita dalla normalità che esclude ogni stupore, figuriamoci il sospetto di una “malattia”.

Eppure solo un decennio fa, di fronte alla stessa scena «sarebbe stato difficile non pensare a qualcosa come a un’alienazione collettiva che isolava in massa gli individui dal loro qui e ora, per sempre fissi su un simultaneo altrove», ha osservato Alfonso Berardinelli su “Avvenire”. Ma un decennio è un secolo nel nostro tempo contratto. Perché è proprio lì, nell’accelerazione dei processi sociali e nell’esplosione tecnologica che sempre più li governa che si trova una delle fonti dell’alienazione, come aveva intuito nel 2014 il sociologo tedesco Hartmut Rosa (“Accelerazione e alienazione”, Einaudi), segnalando «conseguenze di vasta portata per gli schemi dominanti dell’identità e della soggettività». Alienazione, appunto: da sé stessi, dagli altri, dallo spazio, dal tempo, dalle cose, dal nostro agire.

Si tratta di una nozione quanto mai sdrucciolevole, in ogni caso, fin dal suo imporsi al dibattito filosofico con il giovane Marx dei “Manoscritti” e dell’“Ideologia tedesca”. E qualche volta ambigua, nel suo troppo di significato tra economia, sociologia, filosofia, psicologia. Ma altrettanto “resiliente”, se dopo essere stata trascurata e abbandonata da molti studiosi di Marx è tornata centrale con la Teoria critica della Scuola di Francoforte.

E oggi? Oggi l’alienazione ha raggiunto il suo zenit, secondo alcuni studiosi della mutazione antropologica diventata epifania anche per due ragazzini sul vagone della metropolitana. E le sue diverse declinazioni - da quella mentale come “estraniazione da sé” a quella sociologica che ha il suo epicentro nella parola sfruttamento - sembrano trovare una sintesi nel nostro brulicare nell’infosfera digitale, che non è solo “info”, ma anche emotivo-relazionale, ludico, lavorativo.

È il veleno prodotto dal totalitarismo digitale, dal tecnocapitalismo, secondo studiosi come Lelio Demichelis ed Éric Sadin, autori di due recenti saggi che ci mettono in guardia su uno stato di servitù volontaria in cui staremmo inconsapevolmente precipitando (“La grande alienazione”, Jaca book; “La siliconizzazione del mondo”, Einaudi).

Gli interrogativi e le tesi sull’alienato 2.0 hanno ripreso quota da qualche anno. «Siamo vittime di un’alienazione tecnologica?», si chiedeva Wired, “la bibbia di Internet”, nel 2014. Lo stesso anno in cui il filosofo francese Stéphane Haber, sosteneva che la rivoluzione digitale fornisce l’occasione di rinnovare il tema filosofico-sociologico dell’alienazione, provando a ricollocarlo nel suo alveo “naturale”, quello dove lo stato mentale è in stretta parentela con un rapporto di sfruttamento: «Lo spettacolo che offre il capitalismo digitale così come è messo in opera dalle grandi firme che dominano oggi Internet conferma l’esattezza del motivo dell’alienazione». O in modo ancora più chiaro: «La rivoluzione digitale ha accompagnato la reinvenzione dello sfruttamento».

Insomma, l’alienato si sarebbe preso tutta la scena. L’alienazione sarebbe diventata “grande”, come sostiene Demichelis. L’ideologia “siliconista”, pervasiva come mai nessun’altra, ci impedirebbe di vederlo, suggerisce Sadin. Fino al punto che il nostro stesso pensiero sarebbe stato alienato all’oligopolio del tecnocapitalismo (Franklin Foer, “I nuovi poter forti. Come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi”, Longanesi).
Libri che ripropongono il problema con una forza inversamente proporzionale alla capacità di metterlo a fuoco da parte della stragrande maggioranza degli utenti e frequentatori del “parco giochi” digitale, protagonisti di un «malefico paradosso», aveva sostenuto sul suo blog il saggista e blogger Remo Bassetti: «Più l’utente governa la sua vita privata nell’infosfera (sfruttando al massimo gli oggetti tecnologici e i software che la ottimizzano sul piano dell’efficienza) più si reifica a sua volta in “oggetto” fornitore di dati, viene classificato, indirizzato, e arricchisce i fini del potere che a lui sono estranei. L’infosfera prospetta la versione contemporanea dell’alienazione e anche della dialettica servo/padrone...».

Ma torniamo sulla metro B. Che cosa stanno facendo i passeggeri che la ragazzina ha liquidato con uno sguardo come “alienati”? Che cosa facciamo noi tutti a capo chino sul quel vagone, come al gate di un aeroporto o nella sala d’attesa del dentista? E in fondo quasi ovunque nel tempo della connessione?
Qualunque sia il nostro specifico interfaccia stiamo lavorando, stiamo producendo un plusvalore che non è frutto del nostro nudo lavoro, come il proletariato di Marx, ma della nostra vita nella sua totalità, affermano i teorici dell’alienazione digitale. «Perché l’economia digitale», scrive Éric Sadin, «aspira a trasformare ogni gesto, ogni fiato, ogni relazione, in un’occasione di profitto, nell’intento di non lasciare nessuno spazio vuoto. È sempre a caccia di ogni molecola vitale per poterla occupare, fino a confondersi con la vita stessa. L’economia digitale è l’economia totale della totalità della vita».

Un’economia che alimentiamo di buona lena, tanto che si dovrebbe parlare di auto-alienazione, auto-sfruttamento, favoriti dal fatto che il medium digitale, sosteneva il filosofo Byung-chul Han, «agisce sotto il livello della decisione cosciente, modifica in modo decisivo il nostro comportamento, la nostra percezione, la nostra sensibilità, il nostro pensiero, il nostro vivere insieme».

L’alienazione non sarebbe solo grande, in definitiva, ma anche «ben mascherata», scrive Demichelis. Del resto già Marcuse, ben prima della versione digital dell’alienato, notava che c’era un processo di identificazione tra l’individuo e i beni-merci-consumo che costituiscono un’esistenza imposta, ma in cui troviamo soddisfazione, identificandoci. «E questa identificazione», scriveva il francofortese, «non è illusione ma realtà concreta, e la realtà costituisce uno stadio più avanzato di alienazione».

Avanzato, ma non ancora “grande” quanto lo ha reso il tecnocapitalismo degli ultimi due decenni, argomenta ancora Lelio Demichelis nel suo saggio. Posto che l’alienato digitale «appartiene (con la sua vita intera, non solo quella di lavoro e consumo) a qualcun altro (le piattaforme), cioè apparentemente a quel Nessuno che è il sistema tecnico, a quella religione che è il tecno-capitalismo, dovendo comunque vendersi in cambio di un salario sempre più ridotto è sempre più incerto al pathos che deve condividere - e soprattutto dovendo vendere sé stesso, il proprio profilo e i propri dati...».

L’analisi critica del modello tecnoliberista di Demichelis (preso in esame anche al di là delle nostre immersioni digitali in senso stretto) è radicale, e non sembra far intravedere vie d’uscita: «Oggi la forza lavoro», scrive nella “Grande alienazione”, «non contiene più alcuna capacità critica né di riconoscimento dell’alimentazione a cui soggiace, perché la biopolitica neo liberale e tecnica l’hanno sussunta interamente nel sistema rimuovendo (o quasi) ogni capacità di immaginare alternative e quindi di potersi dis-alienare».

E dall’altro versante delle Alpi il filosofo Sadin rincara con un parallelismo storico, chiamando in causa il Franz Fanon che collegava il colonialismo ai disturbi mentali, soprattutto riguardo alle forme di alienazione. L’analisi di Fanon, osserva Sadin, «riecheggia una doppia forma di alienazione contemporanea. Alienazione innanzitutto dal nostro potere di liberazione collettiva a fronte di un fenomeno che si vuole inevitabile e si impone con una furia irresponsabile e colpevole. Alienazione, poi, ancora più determinante dalla nostra autonomia di giudizio attraverso il fatto che il maggiore slancio di questo modello economico dipende dal neutralizzare ogni umana spontaneità e libero arbitrio».

Con il prefisso “tecno” il capitalismo avrebbe raggiunto obiettivi impensabili nell’era fordista, seguendo il pensiero di autori come Demichelis e Sadin. E ciò è stato reso possibile da una “mutazione” antropologica sbocciata in ambiente digitale, mutazione che avrebbe anche (o soprattutto) prodotto l’adesione volontaria a un modello da parte di chi avrebbe dovuto esserne antagonista, anziché alimentarlo con la celebrazione dei miti dell’auto-imprenditorialità e dell’auto-innovatività tecnica socializzata. Miti che «producono alienazione in chi si crede imprenditore, innovatore e padrone dei mezzi di produzione e del prodotto del suo lavoro - in realtà alienato sempre più da sé stesso in quanto non proprietario neppure di sé stesso perché divenuto non solo merce, auto-ricettivo e auto-esecutivo nel fare ciò che deve essere fatto», argomenta Demichelis nel suo saggio.
Argomenti che, come tali, possono essere contestati su più versanti. O completamente rovesciati, come fa Maurizio Ferraris con una “mossa” filosofica forse altrettanto radicale, ma di segno opposto.

«Con l’avvento del web», ci dice il filosofo del “nuovo realismo”, «la scomparsa della differenza fra tempo del lavoro e tempo della vita, e la sussunzione del lavoro sotto la categoria più complessiva della mobilitazione, fanno scomparire l’aspetto più vistoso del capitalismo secondo Marx: l’alienazione del proprio tempo (pur persistendo l’alienazione rispetto ai prodotti del proprio lavoro)».

« In effetti», prosegue, «sull’arco di una intera vita lavorativa abbiamo la realizzazione dell’umanità comunista della “Ideologia tedesca”, quella in cui la mattina si va a pesca, al pomeriggio si critica, la sera si accudisce il bestiame. Non è forse proprio questa la nostra vita? E non è la vita paradigmatica del comunismo realizzato? Osservare che non è granché come vita (ma intanto nessuno vorrebbe tornare indietro), negare che si tratti di una realizzazione del comunismo, vederci una crudele astuzia del capitalismo, è come imputare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo gli hate speech che in effetti sono un risultato imprevisto dell’universale diritto all’espressione».

No, forse non è un granché come vita, si tratti o no di una realizzazione del comunismo piuttosto che di un’astuzia del capitalismo. Ne sanno qualcosa i molti psicoterapeuti che segnalano una crescita costante di disturbi da connessione. E che si voglia o no chiamarli alienazione, suggeriscono una risposta affermativa alla domanda che si poneva Wired nel 2014.

Lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati non esita a usare la parola alienazione, aggettivandola come “ipermoderna”. «Abbiamo conosciuto con l’età moderna», osserva, «un’alienazione tecnologica fondata sull’esperienza dell’espropriazione: l’umano sostituito, rimpiazzato dalla tecnologia. La macchina che da risorsa si trasmuta in potere al quale la vita dell’uomo si subordina. Questo tipo di alienazione non si è esaurito ma casomai potenziato».

In che modo? «Il problema aggiuntivo», prosegue Recalcati, «è che al suo fianco appare un nuovo tipo di alienazione, un’alienazione ipermoderna. Al suo centro non il sentimento di estraneità ma di massima intimità, non di espropriazione dell’umanità ma di assimilazione. Il fenomeno più paradigmatico è quello della connessione permanente». L’alienazione ipermoderna, spiega ancora lo psicoanalista, «ha come tratto distintivo l’immersione senza pause nella rete. In questo senso è un processo di assimilazione e non di espropriazione. Dovremmo rivendicare il diritto alla sconnessione come una volta le masse operaie rivendicavano la riduzione dell’orario di lavoro».

Lo psicoanalista junghiano Luigi Zoja non è certo, invece, che il termine alienazione, «con il suo sapore romantico-marxista», sia il più corretto. Ma non c’è da attendersi una diagnosi meno severa da questa premessa: «Parlerei piuttosto di privazione digitale», spiega, «privazione della presenza, sensoriale e corporea».

La privazione sarebbe dunque il frutto di una sostituzione del mondo vero con quello bidimensionale.
«Dall’inizio del ’900», osserva Zoja, spostando il fuoco dal lavoro al sesso, «c’è stato un aumento delle attività sessuali nel cosiddetto Occidente, sia come quantità che come varietà; ora, per la prima volta, i dati ci parlano di un crollo della sessualità nell’ultimo decennio...».

Alienati? Privati e depressi anche sessualmente? La “mutazione digitale” resta un tema aperto. E forse qualche risposta potremmo trovarla provando a sconnetterci, come suggerisce il tecnologo Jaron Lanier. Una sconnessione temporanea, magari. Così, per gioco.