Il dolore, la morte, la frontiera, il paradiso perduto, la natura violenta. Quel romanzo ci riguarda tutti. E nell’esodo dall’Oklahoma di allora rivedi i rifugiati e i migranti dei nostri giorni

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Polvere siamo e polvere torneremo. In uno dei famosi scatti di Dorothea Lange, grande fotografa americana, è ritratta una fattoria di legno, il recinto, la stalla, il segnavento alto sopra il tetto; alle spalle della casa il cielo non esiste più, non esiste più la strada, tanto meno le coltivazioni. C’è solo una nuvola di polvere che avanza come un enorme organismo vivente: presto inghiottirà qualunque cosa.
È il 1935. Le tempeste di sabbia che tra il ‘31 e il ‘39 colpirono Oklahoma, Texas, Kansas, Colorado e New Mexico possono essere considerate il più grave disastro ecologico che abbia interessato il territorio americano nel secolo scorso. Sono passate alla storia come Dust Bowl.

Lo sfruttamento agricolo, la mancanza di una rotazione delle colture, l’impoverimento del suolo: tante furono le cause che lasciarono il terreno in balia della siccità per un intero decennio. I venti spazzavano i campi a una velocità che poteva arrivare a cento chilometri l’ora e trasformavano la terra in polvere, creando imponenti nuvole nere; improvvisamente la notte calava sul giorno. La tempesta peggiore viene ricordata con il nome di Black Sunday: quella volta persino nella lontana Chicago il buio aveva iniziato a cadere dal cielo come pioggia sporca. Qualcuno parla di una decade “di apocalisse”. In quegli anni Trenta, a un passo dalla Grande Depressione, i contadini persero i loro campi, la loro casa. Erano i nuovi poveri, bianchi e protestanti. Le banche li avevano espropriati delle loro fattorie di mezzadri, perché il terreno dopo le tempeste non era più redditizio. Mezzo milione di persone fu costretto a migrare verso Ovest.

“Venne l’alba, ma senza giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che spandeva un po’ di luce simile al crepuscolo; e con l’avanzare del giorno il crepuscolo ricadde verso il buio, e il vento ululò e mugolò sul mais abbattuto”. Così si legge in “Furore”. Il grande romanzo di John Steinbeck ha appena compiuto ottant’anni. E da ottant’anni continua a essere letto, continua a farci riflettere, nonostante la linearità e la vena retorica per cui molti lo criticarono; nonostante il suo autore abbia preferito all’introspezione psicologica del singolo personaggio, la forza irresistibile dell’istinto collettivo. Furore – con la sua biblica intensità – racconta dei Joad, una famiglia di agricoltori dell’Oklahoma costretta a lasciare la propria fattoria e a mettersi in viaggio verso la California.
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10/6/2019

Il romanzo è lo snodarsi della speranza lungo la Route 66, a bordo di un autocarro. È il cammino verso una nuova casa: una nuova Canaan.
Scritto in soli cinque mesi, Furore vinse - appena pubblicato - il National Book Award e il premio Pulitzer. Divenne un film di John Ford, e nel 1962 ebbe una menzione speciale nella motivazione del premio Nobel al suo autore. Questo però spiega solo parzialmente il motivo per cui il romanzo sia ancora oggi un best seller amatissimo, sempre tra i primi dieci posti nelle classifiche dei classici più importanti. Il fatto è che, lungo le sue seicento pagine, “Furore” racconta qualcosa che ci riguarda tutti: il dolore, la morte, la ricerca del paradiso perduto e, in particolar modo, la giustizia. E, come i veri classici, ha saputo parlare del suo tempo e contemporaneamente intercettare le linee del futuro. Non è un caso che il film di fantascienza “Interstellar” (di Christopher Nolan, 2014) si sia ispirato proprio alle tempeste della Dust Bowl per descrivere una Terra inabitabile e la conseguente necessità di trovare nello spazio una soluzione per il genere umano.

Se è vero che a più di vent’anni dal protocollo di Kyoto non si è fatto ancora abbastanza e si prevede entro fine secolo un disastroso aumento delle temperature; se è vero che ogni anno si desertifica un’area grande tre volte la Svizzera e più di un miliardo di persone vive già adesso in territori con suoli agricoli degradati; se solo un anno fa la Banca Mondiale pubblicava un report sul tema della migrazione forzata, provocata soprattutto dal cambiamento climatico, e che nel 2050 il numero di persone costrette a migrare per questo motivo si prevede salirà a 143 milioni, allora si può davvero rileggere “Furore” da una prospettiva profetica. Si possono vedere i Joad – e tutti gli okies – non più come migranti economici, ma piuttosto come rifugiati o migranti ambientali: predecessori di quelli del secondo millennio. Ieri come oggi, privi di tutele.

Rileggere “Furore” a ottant’anni di distanza, nella traduzione che Sergio Claudio Perroni (Bompiani) ha allestito per la prima volta sull’edizione americana integrale, assume un significato nuovo: un significato politico. Un modo per comprendere meglio i flussi migratori di oggi e i fattori che si intrecciano nella fuga delle persone dal proprio paese di origine. La prima metà di “Furore” racconta di un esodo epico. Prima di partire, chi riesce vende tutto quello che ha: fornelli, letti, sedie, tavoli, tinozze. Bisogna decidere cosa portare con sé e questo è il primo strappo. Sì, e lo subiscono anche i bambini: una bambola, un arco, un piccolo giocattolo da tenere in tasca. A volte si è costretti ad abbandonare oggetti importanti: un libro appartenuto al proprio padre, oppure le lettere di un fratello scritte poco prima di morire. Bisogna dimenticare, lasciarsi alle spalle il passato. Le cose che non si possono portare vengono raccolte in mezzo all’aia, arse in unico grande falò. “La gente è il posto dove vive. E la gente non è più intera se l’ammucchi in una macchina e la mandi da sola chissà dove. Non è più viva” dice Muley a Casy, il predicatore, e a Tom, il giovane Joad, la figura centrale del romanzo.

In un articolo pubblicato qualche anno fa nel Corriere della Sera, la scrittrice danese Siri Jacobsen (originaria delle Isole Faroe) parlava del sentimento ambivalente del migrante. Il “nostos” è il dolore del ritorno. Ma ritorno verso dove? È questa la nostalgia inconsolabile di chi abbandona tutto e non si sente mai più a casa da nessuna parte: né nel luogo che lo accoglie, né nel proprio paese di origine. Milioni di migranti che ci sono nel mondo devono provare questa stessa sensazione. È una “fissazione nostalgica”, una nostalgia così forte da impedire l’integrazione, un sentimento patologico che passa di padre in figlio.

La disperazione dei Joad non è ancora nostalgia: è illuminata dalla speranza. “Siamo sempre in viaggio. Sempre in cammino. Perché a questa cosa non ci pensa nessuno? Oggi tutto si sposta. La gente si sposta. Sappiamo perché e sappiamo come. La gente si sposta perché lo deve fare. Ecco perché la gente si sposta. Si sposta perché vuole qualcosa di meglio”. Vale per tutti tranne che per Rose of Sharon: la giovane incinta, abbandonata lungo il viaggio dal marito, che si sente sempre fuori posto. Nostalgica senza soluzione, incapace di trovare il proprio ruolo, tranne che nel potente quadro finale.

È come se in “Furore” ci fosse già tutto. Le migliaia di persone sulla Route 66 rimandano ai profughi in cammino sulle strade d’Europa o alle carovane di persone che cercano di passare il confine tra Messico e Stati Uniti. Il mito della frontiera che illumina i Joad trova una nuova lettura, perché oggi la frontiera è più spesso un confine da attraversare ad ogni costo piuttosto che un luogo da raggiungere. Nelle disavventure dei Joad che arrivano in California e cercano lavoro come raccoglitori di frutta, nelle aste per i salari, nelle condizioni disumane del lavoro e delle baraccopoli in cui sono costretti a vivere, non si può che sentire l’eco del caporalato, di quanto succede nel nostro stesso Paese. Anche il rogo del ghetto dei migranti a Borgo Mezzanone, Foggia, trova un suo corrispettivo nelle pagine di Steinbeck. E così anche lo spirito di certe distorsioni politiche e populiste. “Nell’Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri.”

Quando il libro uscì in Italia, nel 1940, la sinistra lo salutò come l’offensiva di un compagno contro le ingiustizie perpetrate dai padroni a danno dei lavoratori. E così, a ottant’anni di distanza, non possiamo che rivedere nell’atteggiamento di Casy, da predicatore a sindacalista improvvisato, la tempra dell’italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro. Uno spirito che in parte riecheggia anche in Tom: paradigma di un paese stremato dalla crisi, giovane che crede nel bisogno di salvaguardare la propria identità, che lotta per la giustizia contro la fame e la mancanza di lavoro. Bruce Springsteen non poteva che innamorarsi di un personaggio come lui, e infatti nel 1995 incise un album intitolato proprio “The ghost of Tom Joad”. Si fece ispirare dalle parole che Tom rivolge alla madre prima di scappare e sfuggire alla legge: “E così non importa. Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti posti... dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano... e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito... be’, io sarò lì.”

Leggere Furore dopo ottant’anni vuol dire leggere l’oggi. Trovare spunti per approfondire, capire, mettere in moto un pensiero più articolato. I libri servono anche a questo.