Amato, celebrato dal cinema e dalla musica, il romanzo di Steinbeck è sempre attuale. Ma con i dovuti distinguo. «Nel 1929 il crollo di Wall Street obbligò i nuovi poveri bianchi ad abbandonare il Midwest. Oggi la globalizzazione divide tra grandi città e periferie». Colloquio con Olivier Guez

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Si può tracciare un parallelo tra l’America di “Furore” e l’oggi dell’Occidente? Sì e no. Ci sono analogie e differenze sostanziali. La crisi del 1929, che fu il presupposto dei fatti narrati da John Steinbeck, si consumò in pochi mesi mentre la depressione economica contemporanea è assai più lunga e ha ragioni strutturali. Quel testo resta comunque essenziale per il valore letterario e perché spiega come meglio non si potrebbe un passaggio fondamentale della storia degli Stati Uniti».
Olivier Guez, 44 anni, scrittore, sceneggiatore e giornalista (Le Monde, New York Times), nominalmente francese e nato a Strasburgo, terra di confine, ma con identità plurale se ha vissuto in Inghilterra, Belgio, Germania e ha molto viaggiato in Sudamerica e Medio Oriente, riflette, a 80 anni esatti dalla pubblicazione, sul volume che ha avuto tanta fortuna critica (titolo originale “The Grapes of Wrath”, “I grappoli d’ira”).
In questa intervista con “L’Espresso” va anche oltre, riprende le parole chiave dell’opera di Steinbeck, miseria, emigrazione, per inserirle nel contesto di un’ Europa che sembra aver perduto la bussola, assieme ai suoi valori fondanti.

Noto in Italia per il fortunato “La scomparsa di Josef Mengele (Neri Pozza, nel 2017 vincitore del prestigioso premio Renaudot in Francia), presto sarà di nuovo da noi, a Roma il 30 maggio alla libreria Stendhal per presentare la sua ultima fatica “Elogio del dribbling”, il Brasile analizzato attraverso il prisma del calcio, sua grande passione. Nella lingua di Dante non è stato invece tradotto “American spleen”, un viaggio di quattro mesi che fece nel 2011 al volante di una Ford Mustang, nell’America profonda, da New York all’Arizona, luogo cruciale di passaggio anche di Tom Joad, il protagonista di “Furore”. Descrive un Paese, dalle crescenti disuguaglianze, confuso, angosciato, malinconico, con la nostalgia della sua egemonia perduta. E pervaso dalla collera.
È proprio quest’ultimo elemento, la collera, coniugato al profondo disagio per una repentina povertà di ritorno in larghi strati sociali che rende legittima la similitudine con il suo illustre predecessore.

«Allora il crollo di Wall Street e, successivamente, il cataclisma delle grandi tempeste di polvere che rese arida la terra, obbligò centinaia di migliaia di nuovi poveri bianchi, cui erano state espropriate dalle banche le fattorie, ad abbandonare il Midwest per cercare di trovare nuove opportunità in California. Molti giovani morirono di fame. Tutto si tiene, evidentemente. Ma tutto non è uguale. L’America arrivava a quella svolta cruciale dopo aver vinto la Prima guerra mondiale e vissuto un decennio di espansione, liberalismo. Successe all’improvviso e si consumò la tragedia rapidamente. Dopo Lehman Brothers, al contrario, si è originato un problema sociale di lunga durata. Preferisco dunque pensare di aver visto, nel mio viaggio, tutti i presupposti che hanno prodotto alla lunga l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca».
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Quali presupposti esattamente?
«I Tea party erano l’espressione di una collera non più trattenuta. Era crollata la fiducia nella classe dirigente, nei politici soprattutto, considerati impertinenti. Tra le persone non c’era nessuna solidarietà o empatia. Si detestavano reciprocamente. La frustrazione stava producendo la nascita di movimenti fascistoidi. Tutto era già in piazza, tutto era già apparecchiato per l’avvento dell’attuale presidente».

Sembra che lei voglia tracciare un confine netto tra la crisi economica accidentale del romanzo di Steinbeck e la crisi sociale attuale.
«Negli anni Trenta non c’era un elemento decisivo e fondamentale: la mondializzazione, o globalizzazione che dir si voglia. Oggi la divisione netta è fra gli attori della mondializzazione e coloro che la subiscono. I primi abitano soprattutto nelle città, i secondi alla periferia dei grandi centri urbani. Tra le due categorie si è creata una forbice di disuguaglianza che va crescendo. Il turbo-capitalismo ha creato la cesura netta. E non c’è solo l’economia ma anche altri effetti derivati da un fenomeno che ha letteralmente rovesciato le carte. La migrazione di milioni e milioni di persone, la demografia. E l’insieme si è scontrato con la nostra incapacità di reagire, di costruire un’Europa possibile che superi gli Stati nazionali in cui ci siamo racchiusi e che sono completamente sorpassati. Ecco, è l’Europa la mia ossessione in questo momento».

Un’Europa incapace di gestire, insieme, l’ondata migratoria. Un’Europa che rifiuta i moderni Tom Joad arrivati a “rubare” i posti di lavoro agli autoctoni secondo la vulgata sovranista.
«I rifugiati sono solo una parte del problema che voi italiani vivete in modo più acuto perché siete in prima linea, siete più esposti, al pari degli altri popoli del Mediterraneo. L’Europa è indispensabile non solo per questo ma per l’economia di scala che sarebbe in grado di produrre se fosse unita. Da sola l’Italia non ce la può fare, così come, che so?, la Slovenia, o la Francia, o la stessa Germania. Invece i cinesi possono sbarcare in Italia, ad esempio, proprio perché siete fragili. Mentre l’Europa, se coesa, sarebbe incredibilmente forte. Ma non si è fatto nulla per preparare questo cambio di scena e di mentalità».

Nessun politico europeo oggi è all’altezza?
«Mi sembra che Emmanuel Macron abbia capito e il suo discorso esprima la consapevolezza dello stato del mondo. Eppure è detestato».

Per continuare sulle similitudini forse i gilet jaunes francesi sono come gli americani oggetto della sua indagine. Non è che la Francia prepari un altro Trump?
«Discorso complicato. I gilets jaunes sono il frutto di quarant’anni di menzogne dei presidenti, da Mitterrand in giù. Ricordo le elezioni del 2012, tutti i candidati parlavano di lotta alla mondializzazione, nessuno l’ha mai fatta. I francesi sono un popolo infantile, continuano a pensare che il presidente è re e il re è un dio. Quando non funziona se la prendono con lui, o gli tagliano la testa. Invece gli europei tutti dovrebbero affrontare una identica questione esistenziale e fare una rivoluzione se vogliono uscire dall’angolo in cui si sono cacciati. E dal mio punto di vista dovrebbero cominciare dalla scuola, da testi comuni in cui si esprime una identica visione della Cina, della Russia, del Brasile di Bolsonaro, dell’Islam radicale...».

Sembra, questo, un periodo nel quale l’Occidente è in preda all’irrazionale, quasi volesse negare i valori dell’Illuminismo.
«È, in effetti, un momento irrazionale e pericoloso perché i popoli reagiscono a seconda di quello che consiglia il loro ventre piuttosto che il loro cervello. Non so se sia completamente una negazione dei Lumi. Penso che in generale si conosca poco e male la storia e ciò crei disorientamento».

Tornando a “Furore” e a Steinbeck. Il romanzo narra in fondo una emigrazione dovuta ai cambiamenti climatici. E anche oggi grandi masse si spostano per gli stessi fenomeni, persino più accentuati.
«Quello degli anni Trenta non fu il primo caso. Nella storia da sempre ci sono esodi per gli stessi motivi».

La sua biografia la ascrive alla schiera dei perenni emigranti.
«No, attenzione. Io sono un nomade per scelta, sono un privilegiato e lo faccio perché amo il mio lavoro che mi induce a spostarmi, non è la stessa cosa. E ho sempre un porto di attracco dove tornare. In passato non era così. Prendiamo l’esempio di mio padre che lasciò la Tunisia negli anni ’60. Arrivato in Francia non aveva altra scelta che diventare francese. Era assai complicato tenere un legame con le proprie radici, non poteva acquistare giornali della sua terra d’origine e guardare la televisione tunisina. Oggi tutto questo è possibile».

In definitiva cosa ci insegna oggi “Furore”.
«Va letto perché è illuminante su una specifica ma rilevante parte del passato americano, che ha prodotto conseguenze. Allo stesso tempo è datato. Il contesto è totalmente diverso perché manca la dimensione internazionale. Tradotto in uno slogan, allora non c’era Twitter».