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«Non venite a rimproverarci la violenza!». Così protestano i conflittisti. «Le nostre azioni non sono che tentativi di rispondere a una violenza più originaria, strutturale e permanente, che s’ammanta della parola “ordine”». È solo che a quest’ordine, accettato e introiettato ormai nelle nostre forme di vita, ci siamo arresi grazie a un’inconscia servitù volontaria. Perciò non lo percepiamo più nella sua brutalità occulta, nella sua crudeltà implacabile.
Vi è mai capitato di supplicare per un po’ di lavoro? Siete mai finiti per qualche ora in una stazione della polizia? Avete atteso il permesso di soggiorno davanti allo sportello di un insolente burocrate? Si ha un bel dire – come fa Steven Pinker nel suo bestseller “Il declino della violenza” – che la nostra epoca è la più pacifica che si ricordi. Precarietà e vulnerabilità ci fanno sentire particolarmente esposti. Contribuisce a ciò la risonanza mediatica, lo spettacolo della violenza ripresa e documentata; il suo spettro ci insegue e ne scorgiamo ovunque l’incombere. Bombe, sangue, terrore, morte. Eppure c’è una violenza meno eclatante, più invisibile: quella della miseria, della fame, della migrazione, delle catastrofi ecologiche. Ha ragione Žižek: la «violenza sistemica è simile alla materia oscura della fisica».
Guardiamola, dunque, in faccia, smascheriamola! Puntiamo l’indice contro la violenza latente. Respingiamo ogni proposito di pacificazione, che fa il gioco di un potere volto solo a perpetuarsi. I conflittisti hanno il merito di denunciare l’ordine ingiusto. Indignarsi, impegnarsi – organizzare l’autodifesa in vista dell’insurrezione che viene. Così suggeriscono i testi del Comitato invisibile.
Non solo il conflitto è politicamente inevitabile. La politica è conflitto, contrapposizione estrema. Perciò occorre individuare anzitutto il nemico. È la tesi di Carl Schmitt, grande filosofo del diritto, ma anche esponente dell’élite nazista e giurista del Führer. La distinzione tra amico e nemico – non derivabile da altre – fonda l’ambito politico. Attenzione, dunque, a non confondere la politica con la morale o, peggio, con l’estetica. Il nemico può essere bello e buono – e tuttavia resta nemico. Che ne è allora del grande comandamento evangelico «amate i vostri nemici»? Ebbene, replica il cattolicissimo Schmitt, bisogna tener separato il nemico privato da quello pubblico. L’amore si arresta dinnanzi al nemico pubblico che va combattuto fino in fondo. Si può persino amare privatamente quel nemico; ma un amore che si estenda oltreconfine significherebbe pregiudicare il concetto stesso di politica. Qui la guerra è l’orizzonte ultimo: «ogni uomo è un combattente». Un mondo senza guerra sarebbe un mondo senza nemico, e dunque un mondo senza politica. Il nemico di Schmitt è l’opposto dell’imperativo «non ucciderai».
Nel libro “Politiche dell’amicizia”, che tutti dovrebbero leggere, Jacques Derrida sottolinea la rovina a cui va incontro quella pura distinzione auspicata da Schmitt. E tuttavia il conflitto, teorizzato da Hobbes, riconosciuto nella sua carica vitale persino da Kant, seguita a governare la politica dei filosofi, nonché ovviamente quella dei politici, regredita ormai a rissa perpetua.
S’intuisce perché i conflittisti siano molti più di quel che si immagina. Senza dubbio uno schieramento trasversale. Prendere parte, anzi partito, non è forse il gesto politico per eccellenza? L’alternativa è inaggirabile: o si è pro o si è contro. La politica taglia di netto i nodi gordiani, si fonda sulla contraddizione, si nutre di discordia. Tertium non datur, il terzo non è dato. Inutile temperare, mitigare, o peggio, considerare un aspetto e l’altro, assecondare la logica del «sia… sia». La politica ha un’essenza binaria.
Come dare quindi torto ai conflittisti? Tanto più che la maggior parte di loro non fa certo ricorso alla violenza fisica. Quest’ultima è semmai monopolio dello Stato che – come ha denunciato Mathieu Rigouste – ne fa un uso industriale (forze dell’ordine, servizi segreti, polizia, ecc.). Non tutti i conflittisti stanno sulle barricate. Ma l’opposizione è opposizione. Come far fronte all’asimmetria del potere? Così, negli anni e nei decenni di lotte, i conflittisti si sono ingegnati per inventare nuove forme di intervento non aggressive e tuttavia efficaci. Basti ricordare Saul Alinsky, capace di mobilitare i ghetti afroamericani, per arrivare a esempi più recenti, dalle proteste di Occupy al mediattivismo, fino alle forme quasi festose delle manifestazioni ecologiste.
Anche il conflittista più pacifico si presenta sempre con il coltello tra i denti. La contrazione del volto non ne favorisce la convivialità. Poco male – si vorrebbe dire – per i nemici lontani. Ma il punto debole dei conflittisti sono i nemici interni: i pavidi, i concilianti, i galoppini, i traditori, in breve quelli che non prendono sul serio il conflitto e non giocano fino in fondo. Sono loro che mandano a monte tutto. Il conflittista infatti non cede, non tratta; per definizione è intrattabile. La lezione della storia lo sorregge: i grandi cambiamenti sono stati ottenuti dall’alternativa tutto o niente.
Ed ecco allora la deriva del conflittismo: l’irrimediabile scissione interna. Nella logica binaria del fronte chi non si allinea è un nemico. Dobbiamo citare esempi? La sinistra storica e quella attuale ne offrono in abbondanza. Faziosità, spirito di parte, settarismo. Il potenziale del conflittista si logora, si esaurisce sul fronte interno, sulla frontiera della propria setta, in un cupio dissolvi che rasenta l’autodistruzione.
In greco pace si dice “eiréne”. Gli irenisti temono la guerra. Non pretendono di possedere la verità. Guardano alle innumerevoli sfumature di grigio, tra il bianco e il nero, cercano briciole di ragione anche dove il torto è evidente, arrotondano gli angoli, avvicinano i punti di vista lontani, mirano a un accordo, rinunciano ad avere l’ultima parola.
Non saranno molti in un mondo solcato dall’ostilità, inquietato dal dissidio, agitato da una belligeranza diffusa e latente. La loro posizione è talmente innaturale, da apparire un controsenso, un’assurdità. Per di più la prima impressione non è davvero positiva, soprattutto se si considera il contesto politico: o gli irenisti sono in mala fede oppure sono dei pericolosi ingenui.
Alla fine sembrano voler accettare e giustificare l’ordine per l’ordine, con tutti i crimini, le ingiustizie, le oscenità. Il che vorrebbe dire smorzare la frustrazione e raffreddare la rabbia che fermentano tra coloro destinati a subire il dispotismo dei falsi esperti, la tirannia dei piccoli capi, l’arroganza dei vincenti. Viene da pensare che l’accordo a cui mirano gli irenisti sia quello dei magazzini di Amazon, dove a ogni «associato», cioè a ogni lavoratrice o lavoratore, giungono in tempo reale le notifiche algoritmicamente aggiornate in modo da minimizzare costi e frizioni, da massimizzare i profitti degli azionari. Se è questa la pace che hanno in mente, allora lunga vita ai ribelli!
Perché poi non chiamarli più semplicemente pacifisti? A che pro queste inutili complicazioni? Il punto è che in tutta la tradizione occidentale è sempre stata accettata l’originarietà della guerra, rimedio inevitabile, farmaco amaro di un’umanità periodicamente malata. L’ha concepita così la filosofia, a partire già da Eraclito con la sua notissima sentenza: principio cosmico, la guerra – che in greco, “pólemos”, è al maschile – dà vita e morte, è padre e necroforo, iniziatore e becchino di ogni cosa. Così la intende il senso comune. Ma se la guerra viene prima, se precede la pace, se ne è, anzi, la condizione, allora la pace sarà sempre pensata negativamente: o è una sconfitta temporanea sulla guerra, sopita per poco e pronta a riesplodere o, come sapeva bene Kant, è un’idea irrappresentabile, quasi la pace perpetua dei cimiteri. Il pacifismo tradizionale non evade da questo circolo vizioso, dove si cerca la pace preparando la guerra, e con volontà di potere, talvolta non meno violenta, pretende la pace, senza scalfire il primato della guerra.
Gli irenisti tentano una via di fuga, un esodo da questo circolo vizioso che va dalla guerra alla guerra. Non cercano la pace belligerante, che usa la guerra preventiva per assicurare lo sciovinismo del ben-essere, né si accontentano di quella pace che, se non è la furia lancinante dell’acciaio, è l’arroganza subdola dell’oro, è la prevaricazione dello sfruttamento perpetrato dal capitale e dalle macchine. Piuttosto invertono l’ordine: c’è una pace più antica della guerra. Non è quella posticipata, differita, che si adagia nell’indifferenza per l’altro. Non è di là da venire, ma è al di là della guerra. È la pace della non-indifferenza verso l’altro che, nella sua irriducibile alterità, non è il limite contro cui l’io urta, bensì è il suo oltre, il passaggio, il varco, la possibilità dell’esodo. Il fronte sarebbe solo un muro invalicabile dietro il quale l’io si ripiegherebbe su di sé. Anche nell’estraneità inquietante del nemico si manifesta la resistenza morale del volto umano che ingiunge di non uccidere.
Come concepiscono altrimenti la pace, così gli irenisti intendono diversamente la politica. Non si capisce perché il mondo della pólis – ma questo lo aveva già detto Hannah Arendt – debba edificarsi intorno al conflitto. Città e guerra si escludono. Né si capisce perché si dovrebbe ancora accettare il vecchio motto di Clausewitz secondo cui «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». In attesa di una nuova politica pensata dalle donne, che spezzerà quel lugubre nesso con la guerra, gli irenisti, o meglio, le ireniste preferiscono vedere nel nemico un avversario con cui si ammette di dover condividere un mondo, con cui si ha dunque un rapporto di rivalità, ma anche allo stesso tempo di coesistenza.
E, per citare di nuovo gli scritti del Comitato invisibile, occorrerebbe finalmente riconoscere il disastro provocato dall’aver preteso di tenere separata la politica dall’esistenza. È politico tutto ciò che nasce dall’incontro e dall’attrito tra forme di vita. La sola politica è quella che emerge dall’esistenza. Questo è «l’apporto più prezioso di un certo femminismo».
Il che non vuol dire trascurare i rapporti di forze, le asimmetrie del potere, la violenza delle ingiustizie. Si deve, però, diffidare della parola «nemico», perché l’antipolitica indica nel Nemico la causa di un problema a cui non è capace di dare risposte. Questo vale tanto più in un mondo in cui una guerra globale non sarebbe solo distruttiva, ma anche autodistruttiva, e dove la minaccia di un’apocalisse ecologica richiede uno sforzo comune.