Come mantenere la propria singolarità, in un mondo che tende ad addomesticare le differenze? Tra stereotipi di genere e ironia, la risposta è in un docufilm. Apprezzatissimo

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C’è una frase, più di altre, di Pier Paolo Pasolini, probabilmente un verso, che mi porto dietro dalle scuole superiori, ed è: «La diversità che ci fece stupendi». Anche a leggerla adesso, a quarant’anni, la riga ha qualcosa di eroico. Tiene insieme l’epica di tentare una strada di differenza e singolarità, e la tragedia di ritrovarsi nello stereotipo che la diversità e la particolarità possono portare con sé. Gli omosessuali si sposano, e alla festa per il diritto conquistato e sacrosanto dell’unione civile si aggiunge, per esempio, una torta, e invitati appena ebbri che urlano Bacio bacio.

“Normal” di Adele Tulli che ha appena vinto il premio per il miglior documentario del Lovers Film Festival di Torino, ha come tema l’addomesticamento. Come addomestichiamo il nostro genere, il nostro modo di guardare, il nostro modo di vestire, il nostro modo di sedurre. Le bambine giocano con il ferro da stiro e i maschi con il cacciavite perché così vengono fatti i giocattoli; le mamme, nonostante abbiano appena partorito, devono restare in forma e fare ginnastica utilizzando come attrezzo la carrozzina e come peso, il peso del proprio infante; non bisogna stupirsi, inoltre, se le donne vengono bruciate, fatte a pezzi, cancellate dagli uomini, specialmente nello spazio conchiuso della famiglia, perché, in effetti, gli illusionisti che ci appassionano e meravigliano a ogni età, nello spazio conchiuso del palcoscenico, non fanno che tagliare, bruciare, far scomparire le loro modelle; non solo nel tango gli uomini devono guidare, ma anche nelle conversazioni, un uomo - questo insegna un trentenne ad alcuni ventenni dall’aspetto impacciato –, un uomo deve condurre, e per condurre deve possedere argomenti, e questi argomenti devono essere immuni alle risposte acide, sì acide, delle donne. Che cosa guardiamo e troviamo normale, dunque accettabile, solo perché ci siamo abituati?

“Normal” è un documentario dopo il quale appare evidente che la nostra paura più grande sia non essere conformi, e dunque rimanere soli. “Normal” è un documentario dal quale si intuisce che l’ormai abusata e osannata parola resilienza può essere un fattore antistorico. In poco più di un’ora, “Normal” mostra perché la normalità non è mai un concetto morale o civile, ma solo statistico. E dunque, in questa Italia dove la statistica, una sovrainterpretazione via internet della democrazia che non ammette altra rappresentanza della piattaforma, e dove chi più forte urla, più ha ragione, e dove la politica interna si combatte su twitter, grazie alla “bestia”, in questa Italia, “Normal” mostra perché la statistica non può essere il fattore predominante nella politica.

Adele Tulli ha un’aria smilza, composta, occhi allegri, è al suo terzo lungometraggio e sta finendo un post-dottorato all’Università del Sussex. Come gli studiosi seri, tende a sorridere curiosa. Tutti i suoi film sono stati selezionati e premiati in numerosi festival.
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Che rapporto ha lei con la normalità?
«Contraddittorio. Caratterizzato da un misto di timore e desiderio: tanto attratto e sedotto dalla sua pervasività, quanto alienato dalle sue imposizioni disciplinari, intimorito dalla sua sottile violenza e turbato dalla presunzione che si tratti di legge naturale».

La nostra paura più grande è non essere conformi e dunque rimanere soli?
«Aderire alle aspettative della collettività è un esercizio inconscio di auto-rassicurazione, un antidoto all’esclusione sociale. Rivela tanto delle fragilità umane più profonde. Il modo in cui ognuno di noi si confronta con norme e modelli di comportamento varia, ma penso che il processo non sia semplice, e che inevitabilmente generi contraddizioni e conflitti interiori».

Norme?
«Quello che mi interessa di più in questo lavoro non è tanto riflettere sulle norme sociali che regolano la costruzione dei sessi e dei generi, ma esplorare le emozioni contrastanti che il confronto quotidiano con esse ci provoca. Mi interessa la complessità, e la difficoltà, costante del dover regolare la propria identità - di genere, sessuale - con quella che la società ci presenta come normale».

Dove bisogna mettersi per capire che la normalità è solo una convenzione?
«Forse, e questo è il tentativo di “Normal”, in una posizione che prova a osservare e interrogare i gesti quotidiani, le coreografie dei corpi e le loro manifestazioni automatiche e performative messe in atto nelle interazioni di ogni giorno».

Quanto è codificato e costruito nei comportamenti umani?
«C’è molto di artificiale, e sicuramente c’è nei comportamenti legati al genere. Il cinema può aiutare a esasperare gli aspetti teatrali e rituali del quotidiano, e a mostrarci come siamo spesso parte di una pratica performativa collettiva».

Perché, in questa ricognizione e scoperta di artificio, ha scelto il documentario ?
«Non volevo rappresentare il reale ma interrogarlo, giocando con l’idea che la differenziazione tra reale e artificiale non solo non si può applicare al cinema ma nemmeno alla vita».

La nostra?, la sua, la mia?
«La nostra vita è infatti il risultato di una complessa convergenza di norme sociali che ci precedono e ci oltrepassano, e che agiscono inevitabilmente su di noi».

Come si sfugge a questa normalità che è solo un canone imposto, autoimposto, un addomesticamento?
«Aiuto! A questa domanda forse possono rispondere le filosofe più che le registe».

Adele, ma lei è una studiosa!
«Beh, sappiamo che conformarsi alla norma è, spesso e volentieri, un esercizio di autodisciplina, che ha come risultato l’approvazione, il riconoscimento e la legittimazione da parte della società. Per questo è altamente desiderabile. E proprio per questo è anche una potentissima infrastruttura politica, tesa a mantenere l’ordine e i rapporti di potere. È un’infrastruttura che fa leva sul nostro desiderio di felicità, di avere un ruolo sociale, di essere riconosciuti e accettati e di non rimanere soli».

Se ne può sfuggire?
«Forse sfuggire no, ma magari si può provare ad attraversarla fin dove questa fa presa più saldamente in noi, cioè fino alla sorgente del desiderio. Provare a riconoscere alcuni di questi meccanismi già potrebbe aiutare».

Penso all’episodio dei due uomini che a Ferrara si uniscono civilmente. Il diritto acquisito è sacrosanto, ed è anche (purtroppo) un gesto politico. Tuttavia non si sfugge al calco di un rito matrimoniale eterosessuale. Come si conserva, se si deve, se si può, la propria diversità?
«Questo è un grande tema, complesso, sul quale né qui né nel film sono in grado di dare risposte definitive. Però penso che sia un quesito centrale da porsi. La riformulazione a livello istituzionale di forme di sessualità un tempo considerate anomale e devianti ha da un lato l’effetto (necessario) di una maggiore inclusione sociale e quindi, di conseguenza, di una trasformazione del modo in cui la società progressivamente assimila le metamorfosi nella sfera delle sessualità…».

D’altro canto…
«D’altro canto, insieme a questo progresso, i processi di “normalizzazione” tendono a determinare altre, meno visibili, forme di esclusione. La regolazione politica e giuridica della sessualità inevitabilmente disciplina le relazioni affettive, definendo nuovi confini tra forme di sessualità “rispettabili” e “ammissibili” e forme di sessualità dissidenti, come quelle non interessate al matrimonio, alla monogamia e alla natura assimilante dei diritti liberali».

Ma, visti da vicino, siamo tutti normali?
«Boh!».

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