Dal 15 al 18 agosto del 1969 in 400mila invasero i terreni di una fattoria per assistere a un evento che avrebbe segnato per sempre la cultura giovanile

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«Finalmente ci siamo riusciti! Stavolta ce l’abbiamo fatta, non riusciranno mai più a tenerci nascosti!». Così Richie Havens - salito sul palco alle cinque del pomeriggio del 15 agosto 1969 con ore di ritardo nella prima di tre giornate memorabili che cambiarono la cultura occidentale - si rivolse alla marea umana strafatta, felice, accorsa da tutto il paese che aveva davanti, prima di lanciarsi in un set febbrile ed esaltante. Attorno c’era l’equivalente della popolazione della seconda città dello stato di New York. Erano lì per lui e altri trenta artisti che si sarebbero esibiti alla Woodstock Music and Art Fair. Ma erano lì anche per scoprire una nuova dimensione di loro stessi.

A chiudere la colossale manifestazione dopo un collettivo bagno di musica, fango e condivisione sarebbe stato un tal Jimi Hendrix con la sua nuova band, i Gypsy Sun & Rainbows, erroneamente annunciata come Experience. La sua Stratocaster “al contrario” che strazia le note dell’inno statunitense dissolvendone catarticamente la retorica e mostrandone il volto inaccettabile, è IL momento iconologico a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.
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Havens e Hendrix furono l’alfa e l’omega di Woodstock, mezzo secolo fa: in mezzo un intero alfabeto di musica e (contro)cultura: The Who, Joe Cocker, Arlo Guthrie, Jefferson Airplane, Santana, Grateful Dead, Janis Joplin e tantissimi altri. Assieme allo sbarco sulla luna è l’altro grande cinquantenario di questo 2019. E in perfetto ossequio della tradizione, anche Woodstock 50 rischia di non svolgersi. Michael Lang, che ancora promuove il festival, si è mosso in ritardo come nel ’69, si è visto negare i permessi da un paio di località nello stato di New York e ha incontrato difficoltà con i finanziatori, tanto che ne era stata annunciata la cancellazione.
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Dopo una ridda di notizie, smentite e voci più o meno confermate, ora sembra si svolga, ma in tutt’altra location dall’originale: il 16/18 giugno prossimi presso il Merriweather Post Pavilion, un anfiteatro outdoor nel Maryland (che è anche il titolo di un bell’album degli Animal Collective). Non si sa se gli artisti che avevano dato conferma, fra cui Jay-Z, Miley Cyrus, Dead and Company, John Fogerty, Santana e molti altri, che sono stati già pagati, accetteranno il cambio di località.

Ma accantoniamo la sorte traballante di una pallida replica per concentrarci sull’originale. La madre di tutti i festival rock si svolse il 15/18 agosto 1969 nei 240 ettari della fattoria di un produttore di latte a nord dello stato di New York. Su iniziativa di due promoter, Michael Lang e Arti Kornfeld e con i soldi di due imprenditori, John Roberts e Joel Rosenman, “due giovani con capitale illimitato [che] cercano interessanti e legittime opportunità di investimento e proposte di affari”, come dall’annuncio pubblicato sul New York Times grazie al quale si trovarono. I quattro misero in piedi il festival a Bethel - una località non lontano da Woodstock, cittadina bohemienne e colonia di artisti dove viveva Bob Dylan - in meno di tre settimane e fra mille difficoltà, affidandosi allo spontaneismo e alla propria inesperienza, affrontando - e risolvendo - ogni sorta di problema logistico con un misto di fiducia, fatalismo e irresponsabile azzardo.

E fu un miracolo: oltre quattrocentomila persone affluite in una remota zona rurale quasi del tutto priva di servizi igienici, transennata solo in parte, dove il servizio d’ordine era prestato da una comune hippie delle vicinanze e dove sostanze psicotrope e non fluivano liberamente a rivoli senza che accadesse nulla di brutto (come nel dicembre successivo ad Altamont, al concerto degli Stones in California dove il servizio d’ordine erano gli Hells Angels. Finì orribilmente, con un omicidio e tre morti accidentali).

Inizialmente a pagamento, il festival diventò gratuito per cause di forza maggiore: le barriere che dovevano delimitare la zona erano incompiute all’arrivo della fiumana di giovani e gli organizzatori dovettero rassegnarsi a lasciare libero l’ingresso. A impedire il fallimento finanziario dell’operazione sarebbe stato il celeberrimo documentario omonimo del 1970, Woodstock, premiato con un oscar (e montato da un giovane Martin Scorsese). Tale fu l’afflusso che fu necessario chiudere la strade che portava al sito, verso cui si erano diretti un paio di milioni di veicoli - uno dei quali, il camper “psichedelicizzato” della Volkswagen, sarebbe diventato un simbolo. Le auto furono abbandonate dopo ore di fila, in moltissimi arrivarono a piedi.

Naturalmente piovve, e quei corpi nudi coperti di fango, che fecero rabbrividire la stampa bacchettona dell’epoca evocando paragoni con l’inferno dantesco, gridavano la disinibizione del proprio corpo da parte di una generazione che sognava di cambiare il mondo. Ed è proprio questo l’elemento che mette Woodstock in una posizione chiave nella genealogia della controcultura occidentale. Certo, il festival è capostipite di una pletora di altre manifestazioni dalla vocazione più o meno pretestuosamente “sociale”: il concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison nel 1971, da Live Aid a Live 8, fino al britannico Glastonbury passando per i più commerciali, come Coachella, Roskilde, Benicassim, tanto per citarne alcuni.

Woodstock è tra gli eventi fondativi in quella che in Italia era detta contestazione, che trova nella Summer of Love californiana del 1967 i suoi prodromi. Non fu il primo dei festival di questo genere (c’erano già stati il Magic Mountain Festival e Monterey): ma con quattrocentomila e più presenze è senza dubbio il più grande. Codificando la fisionomia del movimento hippie (pace, amore, fiori, incenso, patchouli rock e Lsd) Woodstock occupa un posto cruciale nella genealogia della protesta giovanile del secondo dopoguerra, che era iniziata con la generazione Beat dei Kerouac, dei Burroughs, Ginsberg, Ferlinghetti prima di disciogliersi del tutto un decennio dopo, nella marea caustica del punk.

Negli Stati Uniti come in Europa occidentale, “i giovani” erano un’invenzione della ricostruzione e del boom economico: una categoria sociale per la prima volta non condannata al lavoro fin dall’adolescenza, che aveva improvvisamente un certo potere di spesa e per la quale si stavano creando nuovi mercati. Prendendo naturalmente le mosse dal blues afroamericano, pop e rock ne erano diventati la colonna sonora: figure come Elvis, Beatles e Stones gli idoli principali.

Ma la nuova dimensione materiale nella quale sistemarsi non gli sarebbe affatto bastata, soprattutto mentre il mondo rientrava in una temperie di subbuglio ormai permanente. Pochi mesi prima di Woodstock erano stati assassinati Robert Kennedy e Martin Luther King e si erano scatenate rivolte in tutto il paese; l’America era divisa, c’erano Nixon e il Vietnam, il rianimarsi del femminismo e l’inizio della lunga strada di emancipazione - oggi così sguaiatamente ripudiata da una grossa parte della società occidentale - delle comunità Lgbt.

Woodstock fu un enorme “be-in” (esserci): così si chiamavano le proteste studentesche di allora, spazi delimitati in cui condividere tutto, sviluppare pacifici modelli di convivenza e praticare protesta politica e sociale. Prendevano - ancora una volta, come nella musica popolare - le mosse dalla comunità afroamericana, che nel 1960 nel North Carolina aveva protestato contro la segregazione con il “sit-in”, l’occupazione nei ristoranti segregati di tutti i posti disponibili rifiutando di andarsene. La caratteristica principale dei primi festival musicali di protesta ispirati al be-in era l’assenza di separatezza fra performer e pubblico, e questa divenne anche in certa misura la cifra principale di Woodstock, dove chiunque poteva avvicinare Joan Baez che suonava un set intimo in uno spazio secondario.

Ma il festival aveva naturalmente anche una vocazione commerciale, essendo un evento d’intrattenimento a fini di profitto. E quest’ibridazione era alla base della sua equivocità come del suo fascino. Come disse Artie Kornfeld in occasione del 40 anniversario, nel 2009: «Woodstock era anti-business e capitalista. Con molti altri festival, usa i problemi della gente per far soldi a un concerto». Ed è relativamente facile immaginare quale di queste due dimensioni avrebbe preso il sopravvento nei decenni successivi. Perché è proprio la compresenza di intrattenimento, liberazione sessuale, gratificazione istantanea e istanze politiche a caratterizzare tutto il fenomeno della protesta giovanile del Sessantotto. Tranne ovviamente queste ultime, sono tutti elementi confluiti nel neoliberalismo di mercato, quel campo “neutro” in cui la destra della sinistra e la sinistra della destra si sono abbracciate dagli anni Ottanta. E contro i quali la maggioranza un tempo silenziosa, sobillata da ducetti da quattro soldi, si è oggi letteralmente messa a urlare.

Per questo oggi, visto retrospettivamente, Woodstock appare come l’ultimo sussulto del cadavere della controcultura degli anni Sessanta. Gli stessi Baby Boomers che si bagnavano nudi sotto acido nei laghetti non lontani dal palco - una cosina traballante rispetto a certe mostruosità ecologiche quali il palco odierno degli U2 - sono accusati dai propri nipoti di egoismo per il regime pensionistico di cui godono. Sono quelli che nel 1973, finito il Vietnam e travolto Nixon dal Watergate, si tagliavano i capelli e mettevano in carriera, finendo per occupare proprio gli stessi ruoli e modelli contro i quali avevano protestato: incendiari nati che muoiono pompieri. Come ha detto qualcuno, «gli hippies sono diventati tutti repubblicani e invece di prendere l’Lsd prendono il Viagra».

Ci avrebbe pensato Altamont a chiudere i giochi: la vera fine di un’estate dell’amore durata due anni. Cosa resta oggi dell’anima duplice di Woodstock? Punk e scena rave degli anni Novanta - soprattutto la seconda, con la teorizzazione delle Taz di Hakim Bey (Temporary Autonomous Zone, spazi non-gerarchici limitati, temporanei, autogestiti e liberi da controllo esterno) - hanno raccolto quella sociale e politica, continuando a credere in una controcultura ma estinguendosi puntualmente. Per quella commerciale, basta guardare ovunque altrove.

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