La scuola, l’impegno in Africa, le storie di provincia. E ora la Divina Commedia in un rito collettivo. Il percorso di un non-maestro della regia, Marco Martinelli

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Dopo Matera, Ravenna. Dalla chiesetta di Santa Maria di Costantinopoli alla tomba di Dante. Le due figure vestite di bianco, cominciano a muoversi per compiere il loro cammino, insieme a ottanta spettatori. Sono ottanta “Dante”, a Matera, di più a Ravenna, ovvero colui che cammina, come dice Ezra Pound. Dante è Everyman, figura dell’intera umanità. Una delle due figure, Ermanna Montanari, comincia a parlare: «Dante e Virgilio sono usciti dalle nere tenebre dell’Inferno, sono usciti a “riveder le stelle”. E ora soli su una spiaggetta, ai piedi di una montagna all’alba. Qui inizia il Purgatorio».

Siamo alla seconda tappa della trilogia che Marco Martinelli, l’altra figura in bianco, ha scritto per il Teatro delle Albe: Purgatorio. Il sottotitolo è emblematico: “Chiamata pubblica”. Questo spettacolo è un’esperienza collettiva, ciascuno dei partecipanti appartiene all’azione scenica, che avviene nello spazio della città. Nessun palcoscenico, nessuna distanza tra attori e spettatori. Tutti sono dentro quello che accade, ne fanno parte, lo impersonano. Risuona tre volte la conchiglia, e Ermanna inizia la lettura del primo canto: “Per correr miglior acqua alza le vele/ omai la navicella del mio ingegno/ che lascia dietro a sé mar si crudele”. Padre Dante parla, sono sue le parole d’avvio di questo nuovo viaggio.

Marco Martinelli è una persona speciale, sia come uomo che come regista e teatrante. Nel 1983 ha fondato il Teatro delle Albe insieme a Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni. Sono decine gli spettacoli che ha messo in scena da allora, a partire da “Mondi paralleli” ispirato a Philip Dick, autore allora semisconosciuto, che ha segnato la primissima stagione del gruppo ravennate. Poi venticinque anni fa ha dato vita ad un’altra esperienza: la non-scuola, esperimento teatrale unico, cominciato in una scuola di Ravenna e approdato a Scampia, e a seguire in Africa, ovunque ci fosse qualcuno che invitava Martinelli a compiere questo cammino d’esperienza: mettere in scena un classico teatrale con un folto gruppo di adolescenti, esperienza iniziatica, grande seduta terapeutica. Il drammaturgo ravennate è a suo modo un maestro. Come la sua scuola Martinelli è un non-maestro, cosa che ha reso meno appariscente, persino defilata, la sua carriera registica.

Negli anni Novanta del XX secolo con Ermanna Montanari ha dato vita a una esperienza di meticciato teatrale con attori italiani e senegalesi, una formidabile intuizione che si è concretizzata in una serie di spettacoli imperniati intorno alla figura di Mandiaye N’Daye, attore africano purtroppo scomparso, che ha portato alla costruzione di un teatro a Dioll Kad, nel cuore del Senegal. Tutte esperienze che hanno segnato la carriera di Martinelli, drammaturgo corsaro, come è definito nel sottotitolato di un volume di Maria Dolores Pesce uscito di recente.

Il regista ha vinto sette volte il premio Ubu per la drammaturgia e continua a spostarsi da un luogo all’altro dell’Italia, e non solo per realizzare il progetto della non-scuola, che ora vive una propria vita attraverso un gruppo di collaboratori. Il sodalizio con Ermanna Montanari, attrice romagnola, ha portato a questo ultimo straordinario spettacolo che lavora non solo con il testo dantesco, ma con il nostro presente: forma di rito totale che mescola il teatro greco classico e quello medievale, fatti di cronaca con un immaginario personale. Martinelli ha raccontato in un libro com’è nata questa esperienza, che guida ogni volta il gruppo dei partecipanti nelle pieghe del mistero del Padre della nostra lingua. Il volume si chiama “Nel nome di Dante” (Ponte alle Grazie) e ha come sottotitolo “Diventare grandi con la Divina Commedia”.

Comincia in modo sommesso e poetico: «Mio padre aveva un modo tutto suo di svegliarmi. Entrava nella stanza, si sedeva accanto a me, sui bordi del letto, e cominciava a raccontarmi». Vincenzo Martinelli è, con Dante, il personaggio principale della storia, un funzionario della Democrazia cristiana di Ravenna, città in cui è andato ad abitare dalla natia Reggio Emilia. La storia torna indietro nel tempo e narra le umili origini della famiglia Martinelli, l’incontro tra i genitori, Vincenzo e Luciana, le storie di un mondo contadino dove per andare a scuola Vincenzo percorreva decine di chilometri al giorno a piedi.

È con Vincenzo che sia arriva a Dante, passando per il canto intonato nel campo di concentramento tedesco dopo l’8 settembre 1943, dove è prigioniero, e passando per citazioni di Manzoni mandate a memoria, perché questo è il racconto del farsi stesso della memoria, dello stratificarsi d’esperienze, letture, incontri che costituiscono l’antefatto degli spettacoli ispirati alle tre cantiche del sommo poeta. A Ravenna, scrive Martinelli, è impossibile non inciampare su Dante, è la città che conserva le sue ossa, nascoste molto bene e a lungo dai francescani, mai restituite a Firenze, che le richiedeva per secoli.

Marco, il ragazzo svegliato dai racconti del padre, racconta a sua volta la lotta fratricida tra guelfi e ghibellini, e quella tra bianchi e neri, ripercorre la vicenda del conflitto interno alle città, che ha segnato, come aveva visto Umberto Saba, la storia del nostro paese, e ancora continua. Dante nella sua doppia identità di guelfo e di ghibellino. Vincenzo è il Virgilio del figlio che ne racconta a sua volta la storia a distanza di anni dalla sua scomparsa. Vincenzo è un democristiano in una regione, l’Emilia-Romagna, dominata dai rossi, da comunisti e socialisti. Un democristiano speciale, atipico. Non è un funzionario politico, ma organizzativo. Il suo compito va al di là delle correnti in cui si divide il partito.

Così la storia di Dante Alighieri s’intreccia con quella di questo reggiano e con quelle del figlio regista, che arriva a Scampia e cerca il teatro dove dovrà lavorare con i ragazzi della periferia napoletana per sperimentare ciò che ha imparato a fare a Ravenna, la sua città. «Dov’è il teatro?». Chiede a un ragazzino per strada. «Vai dritto, e poi gira a destra, dove hanno bruciato la ragazza dentro la macchina». Ciò che guida il suo lavoro è una “visione”, che, come quelle di Dante, nascono da un’attenzione costante a ciò che accade. Dentro “Inferno” e “Purgatorio” c’è la realtà di oggi: le navi coi migranti che forzano il blocco, la xenofobia, il razzismo, la crisi dell’idea di comunità, lo smarrimento, l’angoscia per il futuro: Greta Thunberg chiude lo spettacolo.

Martinelli è sì un drammaturgo corsaro, ma lo è in modo dolce. C’è nel suo teatro una tensione alla conciliazione degli opposti, insieme alla volontà di non abbattersi mai, di trovare una via d’uscita, di guardare, come Dante, verso l’alto. Dolcezza e fermezza, ma anche pietas verso il mondo e gli uomini. L’Inferno è stato così: stazioni di una umanità dolente che ascende verso la Luce della Verità e della Giustizia. Non ci sono mai nelle parole di Martinelli frasi provocatorie, bensì un’attenzione ai più piccoli, agli umili, senza arrivare a una forma di religiosità degli ultimi. Semmai c’è ironia, autoironia, perché Martinelli vuole capire, trovare un modo per rappresentare l’istanza di giustizia che lui, giovane cristiano per il socialismo, ha imparato dal padre democristiano.

In “Va pensiero”, nel 2017, ha messo in scena, sotto forma di storia comico-drammatica, la vicenda di Brescello, paese comunista della Bassa reggiana, dove il consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazione mafiosa. Martinelli racconta la storia del vigile urbano, Donato Ungaro, che ha denunciato le collusioni. È uno spettacolo comico e tragico; Ermanna Montanari ci impersona il sindaco del paese, col nomignolo di Zarina. Lo spettacolo si apre con le statue di Don Camillo e Peppone che parlano tra loro.

“Nel nome di Dante” è la storia non solo della famiglia di Marco Martinelli e di Dante, ma del nostro paese tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni ’70. “Purgatorio”, dopo Matera e Ravenna andrà a Timisoara in Romania; è la cantica del ricominciare. Come farlo dopo un fallimento, una sconfitta? Ritornando sui banchi di scuola, in prima elementare, apprendendo una lingua nuova. Questo ha fatto in trentasei anni Marco Martinelli, con pazienza e determinazione, senza spocchia, con la convinzione che «Al buio fa seguito l’azzurro».