Marino Bartoletti: «Sanremo? prima di stroncare chiunque, devi sentirlo cantare»

Rula Jebreal e Benigni. Ma anche Luigi Tenco e Nilla Pizzi. Il festival che verrà raccontato da chi ne ha studiato ogni edizione. E ha imparato due cose. Che oggi è meglio di ieri. E che nessun conduttore è un masochista bramoso di fallire

Marino Bartoletti è in macchina: sta andando a Sanremo, e dove, se no? L'intervista telefonica accompagna l'ex volto di "Quelli che il calcio", che è uno dei massimi esperti del Festival della Canzone Italiana, lungo i 350 chilometri che separano la sua Bologna dalla "città dei fiori". «Che è sempre lì ma negli ultimi tempi, dopo il crollo del ponte a Genova e i problemi di viabilità ancora irrisolti, sembra più lontana».

Alla kermesse sanremese, questo storico fan ha dedicato l'"Almanacco del Festival di Sanremo" (scritto con Lucio Mazzi, Gianni Marchesini Edizioni). Però Bartoletti guarda alla settantesima edizione in arrivo dal 4 all'8 febbraio senza malinconia e con una certezza: «Se in gara c'è qualcuno che non hai mai sentito nominare non devi arrabbiarti ma andarti ad informare. E prima di stroncare chiunque, devi sentirlo cantare».

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In questi giorni di pre-festival si parla quasi solo di politica: di Rula Jebreal e di Rita Pavone. È sempre stato così?
«La pressione politica è andata aumentando con gli anni, ma io credo che sia colpa di quella che Gianni Brera avrebbe definito "masturbatio grillorum": perché noi pensiamo che qualcuno pensi che qualcun altro abbia pensato... E poi i social a forza di rilanci trasformano cose inesistenti in casi mediatici. Io faccio fatica a capire quale sia il potenziale contributo che può dare al festival Rula Jebreal: ma proprio per questo sono curioso di vederla, e poi la giudicherò. Amadeus sta portando a Sanremo una sua visione della donna, vediamo se funziona. Al massimo, dopo dirò: ma che l'hanno invitata a fare!»

E Rita Pavone?
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«Lei ha espresso le sue opinioni, cose che tra l'altro sono condivise da un gran numero di persone: e questo credo sia del tutto legittimo. Certo, chi è in vista dovrebbe essere più prudente quando usa i social, ma se si toglie la spontaneità si perde qualcosa di iportante. Sono rimasto stupito che abbiano chiamato la Pavone ma mi sono detto che in fondo è un personaggio importante della canzone italiana e che forse ha presentato una bella canzone. Ascoltiamola, e se non è bella allora diamoci dentro con la Durlindana: farlo adesso mi sembra un errore. Sul palco dell'Ariston si può cantare di tutto, poi si valuta».

Torna anche Roberto Benigni: quando è andato a Sanremo nel 2002, si era arrivati a proporre il boicottaggio del festival...
«Quella era stata una provocazione di Giuliano Ferrara, che non ne uscì tanto bene. Annunciò che gli avrebbe lanciato le uova, rinculò dicendo che le avrebbe lanciate al teleschermo. Benigni si ascolta e poi, ovviamente, anche lui si discute. L’ultima volta è arrivato a cavallo, questa volta chissà: su un elefante?»

Lei ha fatto per tutta la vita il giornalista sportivo: come si spiega la sua passione per Sanremo?
«Da piccolo avevo due manie: la musica e lo sport. Se qualcuno avesse mi detto allora che da grande mi avrebbero pagato per occuparmi di sport e per seguire gare e partite in tutto il mondo lo avrei preso per matto. Non ho avuto modo di lavorare per la musica perché il mio impegno per lo sport è stato decisamente totalizzante, ma la passione è rimasta».

Tanto da produrre un volume che del festival racconta ogni serata, ogni divo, ogni canzone, ogni gaffe.
«Il libro ha avuto una gestazione mostruosa, roba da elefanti. Ci lavoravo da anni, e ho pensato che i 70 anni del festival sarebbero stati un buon pretesto per pubblicarlo. E siccome io sono nato il 30 gennaio del 1949 e il festival il 29 gennaio del '51, ho passato i miei settant'anni lavorando al libro per i settant'anni suoi: una bella coincidenza».

Lo seguiva già da bambino?
«La passione è nata con l'adolescenza. Passavo le serate davanti al teleschermo a registrare con il mio "gelosino", per rubare quelli che un giorno si sarebbero chiamati "bootleg" delle canzoni: in quei nastri di un'ora per parte ci sono Domenico Modugno, Caterina Caselli, tutte le persone che hanno fatto tanto per la mia felicità adolescenziale».

Oggi invece ogni canzone è disponibile subito in video sulla rete. Che effetto le fa questo cambiamento?
«Mi sembra un’evoluzione corretta. Le mie registrazioni erano un caso quasi unico, non dico che lo facessi soltanto io, ma quasi. Ero riuscito a sfruttare i mezzi che avevo a disposizione per mantenere calda l'emozione della diretta senza andare a spendere il giorno dopo le 800 lire per comprare il 45 giri. Se mai riuscirò a far rifunzionare quel gelosino - c'è solo una valvola rotta, prima o poi ce la farò - ne verranno fuori cose interessanti. Per quanto fosse precaria la qualità della registrazione, e per fare un solo esempio, c'è l'audio dell'esibizione di Luigi Tenco: la registrazione video non esiste più».

Quella canzone di Tenco, "Ciao amore ciao", è una delle poche sul tema dell’emigrazione: un argomento raro nelle canzoni di Sanremo rispetto all’importanza che ha avuto e ha nella realtà del Paese. Anche se la canzone che ha vinto l’anno scorso parla di immigrati…
«Come no, anche se pochi se ne sono accorti, badando soltanto alle polemiche spicciole. La canzone di Tenco è stata stroncata e magnificata a fasi alterne. Lì per lì non piacque anche perché la sua esibizione fu modesta e poco contribuì la ripresa troppo melodrammatica di Dalida – in quegli anni le canzoni in gara erano presentate in due versioni diverse. Aveva avuto una gestazione lunghissima: Tenco era partito scrivendo dei Trecento di Pisacane, e ha finito per parlare di un tema che era d'attualità allora ma che era destinato am diventarlo ancora di più. È ua canzone sul dramma dell’emigrazione dal Sud negli anni Sessanta ma potrebbe vincere a Sanremo oggi. E questo riaccende la rabbia: perché Tenco morto a 29 anni è stato una perdita enorme per la canzone italiana. Siamo ancora arrabbiati per De André che se n’è andato a 59 anni - e come diceva Marcello Marchesi  "se n’è andato che era ancora vivo" rispetto a tanti suoi colleghi. Figuriamoci cosa avrebbe potuto fare ancora Tenco!»

Lei ha fatto parte della commissione che sceglie le canzoni in gara. È un lavoro difficile?
«Difficilissimo: l'ho fatto due volte, e ho imparato tanto. Non ho mai risparmiato le critiche contro chi ha selezionato le canzoni di Sanremo prendendo abbagli clamorosi: come "Meraviglioso" di Modugno. Fu esclusa perché arrivava nel '68, l’anno dopo il suicidio di Tenco: e quella storia di un aspirante suicida salvato da un angelo incontrato per strada, che poteva essere una forma di esorcismo, fu vista come una potenziale indelicatezza. Pippo Baudo, che era il conduttore, a noi della commissione fece una sola raccomandazione: “Per favore, non facciamo la cazzata di lasciar fuori una come Irene Grandi", che l'anno prima era stata esclusa e poi aveva sbancato con "Bruci la città". Io ero un "selezionatore laico": non conoscevo le case discografiche, non sapevo cosa c’era dietro agli artisti».

Ma chi decide di presentare una canzone?
«Quasi sempre sono i cantanti. Ma è capitato anche che i conduttori chiedessero ad artisti già affermati se avevano una "canzone da Sanremo". Carlo Conti per esempio ci teneva ad avere Il Volo e li aiutò a trovare una canzone adatta. Noi siamo partiti da trecento canzoni e dovevamo arrivare a venti. Quando eravamo a 26 o 27, Baudo ci chiese di tenere conto che le donne erano poche, e ci invitò a tenerne il più possibile. Credo proprio che la nostra commissione abbia selezionato in totale libertà, cosa che mi costrinse a rimangiarmi qualche critica preconcetta rispetto alle selezioni precedenti. È chiaro che ti rendi conto di quanto sei importante: succede che a Natale cantanti famosi ti chiamino per farti gli auguri e ti dicano: "Non penserai mica che ho chiamato perché ho una canzone in gara...". E tu pensi: “Certo che no: però gli anni scorsi non mi hai mai fatto gli auguri". Alla decima telefonata cominci a insospettirti...»

A proposito di donne: negli ultimi anni sono sempre di meno. E pensare che Sanremo è partito con uno strapotere femminile...
«Sì, Nilla Pizzi arrivò a vincere primo, secondo e terzo posto nel '52 - il concorso era completamente diverso. Poi ci sono stati anni in cui il podio era tutto femminile, altri in cui erano tutti uomini».

È successo l'anno scorso: e nei mesi seguenti ci sono state molte altre occasioni per protestare contro il poco spazio concesso alle voci femminili. Uno dei motivi è lo strapotere del rap, un genere musicale che all'inizio era totalmente maschile. Un genere che, oltretutto, non prevede una differenza tra "interpreti" e "parolieri": chi scrive, canta. Le donne, che sono molto spesso interpreti, finiscono doppiamente penalizzate.
«Questo però dovrebbe stimolare le donne a cimentarsi in un genere che geneticamente non gli appartiene. Gli autori e i cantautori invece continuano a cercare il cantante più adatto per ogni canzone. Ma possono anche sbagliarsi. Quando Luca Barbarossa propose a Fiorella Mannoia "L'amore rubato - una delle canzoni più forti del festival, la prima a raccontare uno stupro – fu lei a dirgli che sarebbe stata più efficace se a cantarla era un uomo».

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Alcune canzoni invece possono essere cantante da un uomo o da una donna: "E dimmi che non vuoi morire", una delle canzoni più belle non solo di Sanremo…
«Dove arrivò ottava... L’ha cantanta benisismo Patti Pravo ma è bella anche dalla voce di Vasco Rossi, che l'ha scritta insieme a Gaetano Curreri degli Stadio. E pensare che quell’anno vinsero i Jalisse, diventati non del tutto meritatamente simbolo di una vittoria immeritata».

Che poi ci sta pure che Sanremo lo vinca "Fiumi di parole", e non un capolavoro...
«No, non è detto. Perché altre canzoni premiate -  "Chiamami ancora amore" di Roberto Vecchioni e "Un giorno mi dirai" degli Stadio - sono di una bellezza e profondità che va oltre il televoto o le cose che tendenzialmente pensiamo che decidano chi vincerà Sanremo. Io mi sto scoprendo sempre più "oggista" che "ierista", non ho nostalgia del passato. Malgrado l’età ho capito che bisogna cercare di capire il senso contemporaneo delle proposte. Invece di fare come molti che si dicono "questi non li conosco" e li stroncano a priori, cerco di informarmi. Quest’anno mi capita per i Pinguini Tattici Nuclari, mi era accaduto per Lo Stato Sociale. Non conoscevo Achille Lauro e ho scoperto un artista che vale la pena seguire, come pure gli Ex-Otago. Bisogna sempre pensare che chi organizza Sanremo non è un suicida che mette lì un parente perché vuole essere coperto dalle critiche!».

Leggendo il suo "Almanacco" si vede che le polemiche su come scegliere il vincitore ci sono sempre state. Ci sono stati tentativi di ogni tipo per arrivare a un giudizio oggettivo: la posta, le telefonate mirate, quelle a caso, l'auditel, la giuria di qualità, quella che prevedeva un impiegato un barbiere e una segretaria…
«Lucio Dalla diceva che Sanremo si giudica dal podio, e forse aveva ragione: però poi ognuno uno si riconosce in chi vuole, nella Bertè che arriva quarta o in Cristicchi che è solo quinto con una canzone bellissima. L’anno scorso l'età media del podio era di 24 anni però c’era di tutto: il genere musicale classico del Volo, che può piacere o no ma ha dietro grande professionalità e talento. C'era Ultimo, un fenomeno che da anni riempie stadi dove sessantamila persone di età diverse cantano in coro le stesse canzoni. E il vincitore, vogliamo parlarne ancora? Gli hanno vomitato addosso qualsiasi cosa, ma ha portato a Sanremo una canzone memorabile per il tema, per il modo in cui l'ha cantata, per la sua presenza sul palco. In settant’anni siamo passati da Nilla Pizzi, candida e ingenua come l'Italia degli anni Cinquanta, a Mahmood: e va bene così»

"Soldi" è stato anche un grandissimo successo internazionale: un riconoscimento che il festival di Sanremo ha sempre cercato di ottenere.
«Ha collezionato milioni di visualizzazioni nel mondo, per quello che ancora vale è stato anche il disco più venduto, e già il giorno dopo a scuola mio nipote di 8 anni e i suoi compagni lo cantavano in coro. Ma questo perché Mahmood non era un novellino, aveva già firmato per Mengoni canzoni che hanno fatto il giro del mondo. E infatti quest'anno torna come autore della canzone di Elodie».

Quest'anno c'è una grande differenza tra i cantanti in gara, si va dalla musica di ricerca al talent. Ma è sempre stato così?
«È una tendenza aumentata negli ultimi tempi, perché lo spettacolo televisivo vuole coprire tutti i target possibili».

Oggi quindi un conduttore non chiederebbe più ai selezionatori solo di scegliere più donne: ci vuole il vecchio e il giovane, la musica tradizionale e quella alla moda, il colto e il trash…
«Sì: a volte per coprire tutte le nicchie si fanno disastri, invece di somme algebriche si fanno elisioni algebriche. Da quello che ho capito, Amadeus ha scelto più in base alle canzoni che agli interpeti. E nella scelta delle canzoni si è basato molto sulla sua esperienza di conduttore radiofonico. Del resto scegliere una canzone è difficile. Mai fermarsi al testo, bisogna aspettare l’ascolto, e sapere che comunque l'esibizione sul palco può cambiare tutto. Non penso agli scimmioni e alle vecchie che ballano, ma alla commozione di Curreri degli Stadio. Ben vengano le braccia di Modugno che si allargano mentre canta “Nel blu dipinto di blu” e anche la salivazione che si azzera: l'emozione fa parte del gioco. Vale anche per chi si occupa di Sanremo. Quando facevano "Quelli che il calcio", prendevamo in giro il calcio perché lo conoscevamo bene e perché lo amavamo, altrimenti non ci saremmo potuti permettere di farlo. Lo stesso vale per chi si occupa di Sanremo: è giusto che si lasci prendere dalla passione.»

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