La denuncia ecologista. Il cammino in gruppo come forma di resistenza. Il sogno di trasformare l'emergenza in una chance. Scatenando le energie positive graszie a un gran ballo collettivo. Il grande scrittore torna nella sua terra natale. E da Mantova, città d'acqua, guarda l'intero pianeta

moresco-jpg

La Camera degli Sposi contro la Camera dei Giganti, due visite in rapida successione in compagnia di Antonio Moresco. Si muove tra questi due mondi lo scrittore, fisico asciutto e barba bianca: il capolavoro quattrocentesco di Andrea Mantegna nel Castello di San Giorgio, realizzato in onore della famiglia Gonzaga, «la più miracolosa superficie di muro dipinta che esista al mondo, riesce a tenere insieme alto e basso, cielo e terra, esseri umani e animali, un gesto artistico che riapre immaginari possibili». E, a due chilometri da qui, l’opera più famosa e spettacolare di Palazzo Te firmata da Giulio Romano, «venditore di fumo tardorinascimentale, venuto nella mia città perché chiamato dal bamboccio di Isabella d’Este che voleva sbalordire gli ospiti del suo casino con quelle pacchianerie».

Moresco abita a Milano e torna di rado a Mantova, quattro o cinque volte dopo la morte della madre, quasi vent’anni fa, ma quando capita nella sua città natale si immerge nelle proprie idiosincrasie e passioni, nelle brume fosche del Mincio e nei ricordi dolorosi rievocati nei romanzi “Gli esordi” (uscito per Feltrinelli nel 1998, poi ripubblicato da Mondadori nel 2011) e“Gli increati” (Mondadori), nel racconto “La camera blu” e in altri scritti, nella miseria della famiglia di origine e nella ricchezza dei nobili che presero la madre a lavorare come serva, la stessa villa in cui Bernardo Bertolucci girò in seguito il film “Novecento”. Dove tutto cominciò tra mille difficoltà materiali, prima dell’accidentato percorso di studi, tre anni di seminario a Bergamo sradicato dalla famiglia e fortemente isolato, l’amore per la scrittura prima dei vent’anni - moltissime poesie, molte pagine di diario, racconti e qualche breve romanzo - la militanza politica nella sinistra extraparlamentare. E ancora, il lungo apprendistato letterario e i tanti rifiuti da parte degli editori, fino all’esordio con “Clandestinità” (1993), che in primavera verrà ripubblicato da Sem, Società Editrice Milanese.

Nella sua terra lo scrittore, 72 anni, finalmente consacrato dal mondo editoriale e televisivo, coglie l’occasione per esplorare l’intreccio tra vita e morte, rivivere il caos tormentato che impregna i suoi romanzi, denunciare la follia del «suicidio di specie» perpetrato dall’uomo che «è riuscito, da solo, a fagocitare e distruggere le risorse di un intero pianeta e il proprio stesso habitat», come scrive nel pamphlet “Il grido” (Sem), in cui mette sotto accusa tutti: politici, sociologi, scrittori («se ne stanno comodamente collocati dentro un quadro umanistico terminale») e anche molti degli ambientalisti, colpevoli di vedere solo la parte emersa dell’iceberg «e non vogliono o non possono vedere la parte sommersa, che ha a che fare con la nostra specie genocida».

Mentre incombe la catastrofe ambientale, dopo il fallimento della Conferenza sul clima di Madrid, cresce il movimento dei “collassologi” che si prepara alla fine del pianeta: il settimanale francese L’Obs ha dedicato al fenomeno una recente copertina. Tuttavia Moresco, come sempre, mescola le carte e rigetta le letture semplicistiche: in un dialogo immaginario con Giacomo Leopardi, uno dei personaggi che popolano “Il grido” - tra cui Stephen Hawking, Sigmund Freud, Michel Houellebecq - ribalta la visione pessimistica del poeta di Recanati perché, di fronte all’ipotesi dell’estinzione di specie imminente «ci sarà invece il lieto fine che ci libererà definitivamente da questo male, da questo dolore e da questa catena di creazione e distruzione che si guardano l’un l’altra dentro lo stesso specchio». Lo scrittore però lascia aperto uno spiraglio, una possibilità di riscatto: «A sentire molti scienziati sembrerebbe troppo tardi per salvare la specie umana, ma io non accetto i teoremi chiusi, esiste sempre un elemento imprevisto. Il mio sogno è trasformare la catastrofe in una chance che sposti i parametri della nostra vita di specie: dobbiamo passare per una metamorfosi, del resto gli insetti ne hanno conosciute centinaia».

Metamorfosi significa anche spostamento, superamento dei limiti: il progetto Repubblica Nomade, avviato nel 2011 da Moresco insieme a un gruppo di scrittori della rivista Il Primo Amore, si articola in una serie di cammini di donne e uomini attraverso l’Italia e l’Europa: da Milano a Napoli-Scampia, da Mantova a Strasburgo, e poi in Sicilia, in Sardegna, da Parigi a Berlino, dal Salento alla Grecia, e ancora da Firenze ad Assisi a Recanati, sulle tracce di Dante, Francesco, Leopardi. Lo scorso novembre, a Napoli, l’iniziativa “Terrestri” si è conclusa con una passeggiata sul Vesuvio, dove i partecipanti hanno fondato idealmente la Repubblica dei Terrestri: senza confini né territorio, perché il territorio che ci riguarda è l’intero pianeta. «C’è voglia di partecipare: oggi le persone hanno bisogno che si chieda loro di più, non di meno. Più chiedi, più dimostri loro che sono vivi», aggiunge.

Dopo i cammini, lo scrittore ha in mente di lanciare in primavera un ballo collettivo, scatenato e primordiale, popolare, potente e liberatorio, con persone di ogni provenienza. Un gesto simbolico ma molto fisico, per «contribuire a inventare qualcosa che sia proporzionale all’eccezionale situazione che stiamo vivendo», prosegue Moresco, in bilico da sempre tra la voglia di partecipare e la tendenza a isolarsi.

Adesso, di nuovo a Mantova, è pronto a oltrepassare altri confini, di per sé mobili, in una terra sospesa fra tre regioni - Lombardia, Emilia, Veneto - a cominciare dalla lingua. Una vocazione che viene da lontano. «È il dialetto ostrogoto-mantovano che parlavano i contadini e i mediatori della provincia che venivano al mercato in piazza delle Erbe per trattare su terreni e bestiame. Qualche volta da ragazzino passavo da lì: avevano tutti il tabarro nero e il cappellaccio, si muovevano in mezzo alla nebbia come figure mantellate, un’irruzione del passato nel presente che rompeva l’idea lineare del tempo, come nei miei libri. Nella mia mente passato, presente e futuro sono indissolubilmente legati», dice mentre in una fredda e assolata mattina attraversiamo vicoli coperti di ciottoli e piazze avvolte in un’atmosfera blandamente natalizia, passiamo davanti alla sua casa natale in via Solferino, un tempo piuttosto signorile («oggi è ridotta a un tugurio, sembra la “Casa desolata” di Dickens»), e alla scuola elementare dove lo scrittore collezionò i primi insuccessi sui banchi. E ci fermiamo nel cortile del settecentesco Palazzo D’Arco, l’edificio che dà il nome al suo ultimo romanzo, “Canto di D’Arco” (Sem), il thriller metafisico che ha come protagonista un poliziotto di nome D’Arco, che abita e lavora nella città dei morti, il quale per risolvere un caso è costretto a tornare nella città dei vivi, da cui è venuto e dove è stato ucciso.

Un mondo trasfigurato, popolato di personaggi inquietanti: il bambino muto con il collo attraversato da una cicatrice a forma di collana di filo spinato, i serial killer vestiti da sposi, i manichini d’amore. «In molti associano il titolo a Giovanna d’Arco o al termine inglese “dark” per le atmosfere cupe del libro. E invece viene da qui», prosegue lo scrittore indicando il piano nobile, dove un’amica della madre lavorava come cameriera e dama di compagnia dell’anziana marchesa D’Arco. Da ragazzino Antonio passava da qui tutti i giorni, davanti a questo bel palazzo a metà strada tra casa e scuola. «Ero piuttosto ritroso, facevo resistenza quando l’anziana marchesa con le unghie acuminate e le mani adunche mi invitava a salire. Ma dovevo pagare dazio», aggiunge con un sorriso lieve.

Mentre si arriva a Mantova è bello leggere, o rileggere, “La mia città” (Nottetempo, 2018), libro di schegge liriche pensate in dialogo e talora come controcanto ai dipinti di Giuliano della Casa, realizzati per l’occasione. Ricordi, evocazioni, pensieri che si affastellano come ombre sui vicoli e nelle piazze. Ed è bello tornare con l’autore sui “luoghi del delitto”: nella Sala dei cavalli a Palazzo Te, l’unica che lui salva di tutto «quel baracconesco palazzo», prima di ammettere candidamente che quell’edificio rinascimentale adorato in tutto il mondo «mi riempie di vergogna»; in quella grande casa dai soffitti a volta oppure a cassettoni, quando faceva freddo, in quelle notti d’inverno, quella casa «piena di scale e scaloni, di merde di gatto sotto i pesanti mobili neri», «di letti a baldacchino gonfiati dalle sagome di preti di legno con dentro lo scaldino pieno di braci coperte dalla cenere»; e ancora, lungo il Rio pieni di pesci gatto, che si muovevano là dentro «con i loro corpi viscidi, le loro bocche pulsanti e i loro baffi, in mezzo a quelle lunghe alghe tormentate dalla corrente come interminabili chiome nere che si divincolavano al buio».

Già, l’acqua. Torna spesso nella memoria di Moresco, quando durante l’adolescenza affittava una barca alla Canottieri Mincio e remava fino al punto dove c’erano i fiori di loto. Sì, i fiori di loto, una distesa a perdita d’occhio. «Passavo con la barca in mezzo alle loro grandi foglie pesanti e fredde che galleggiavano orizzontali sull’acqua e a quei loro inconcepibili fiori che venivano su dal fondo e dal fango», prosegue lo scrittore mentre approdiamo nella zona in cui sorge il Santuario della Beata Vergine delle Grazie, affacciata sul fiume a una manciata di chilometri dalla città. La chiesa, in stile gotico lombardo, è famosa per il coccodrillo imbalsamato appeso al soffitto, sulla cui provenienza fioriscono leggende e teorie.

Mentre scrutiamo l’orizzonte Moresco sottolinea che la sua città natale sorge sull’elemento primordiale, che riaffiora dappertutto. «Un tempo era piena di ponti, che adesso non ci sono più. Molti sono stati abbattuti nel Seicento dai lanzichenecchi. Si capisce che sotto c’è l’acqua perché anche adesso le sue piazze di ciottoli sprofondano e salgono come onde», aggiunge. Mantova città d’acqua e di terra, due elementi che qui giocano insieme, si abbracciano, combattono, in un confine mobile che ci induce anche ripensare noi stessi. «Anche noi siamo un confine, ecco perché nei miei libri metto sempre insieme la città dei vivi e quella dei morti», conclude Moresco: «Ho voluto rompere questa barriera perché, come molti alberi, anche noi umani siamo un po’ vivi e un po’ morti».