Filippo La Porta: Pasolini, da corsaro a star del pop
Il genocidio culturale degli italiani. La mancanza di anticorpi critici. L’umanità e la periferia. È negli scritti giornalistici la sua vera eredità
Pasolini ci manca. Lo pensano in molti. Ma perché? In cosa è ancora attuale? Chi ha raccolto davvero la sua eredità, nel momento in cui viene spesso ridotto a santino inoffensivo? E ancora: la sua lezione morale, di assoluta limpidezza e radicalità, risulta un po’ adombrata da una esistenza gremita di contraddizioni? Ogni anno, in prossimità dell’anniversario della sua morte (avvenuta 45 anni fa, e di cui ancora non conosciamo i retroscena: è il nostro “assassinio di Kennedy”!) si affollano questi interrogativi.
Il Pasolini attuale, e ancora “scandaloso”, resta quello degli scritti corsari, interventi giornalistici - prevalentemente sul “Corriere della sera” - affilati come microsaggi di antropologia, formalmente accurati come poemetti in prosa. Se ripassiamo i volenti dissensi e le polemiche che hanno scatenato, non si può fare a meno di constatare che di fronte ai suoi interlocutori Pasolini sembra un gigante. In essi descrive - come nessun altro allora - la società italiana in un passaggio decisivo, l’impoverimento culturale dei nostri connazionali, la fine di una intera civiltà. Non tanto critico altezzoso della modernità (come ad esempio allora Elémire Zolla) quanto nemico di questa modernizzazione perversa, fondata esclusivamente sui consumi privati e incapace di elaborare un legame con il passato (mentre lui amava il passato, la tradizione italiana, in un modo struggente). La società dei consumi - o “neocapitalismo” - deprivata di qualsiasi anticorpo critico, di qualsiasi retaggio umanistico, fa terra bruciata di valori, modelli e ideologie. Per capirlo non occorreva una immaginazione sociologica sovrumana ma solo una purezza di sguardo, di cui allora nessuno fu capace.
Dove ritroviamo la sua eredità? Forse fuori della letteratura: nel cinema, nella canzone, nel fumetto, e poi nell’immaginario collettivo, dove Pasolini stesso - il suo personaggio più riuscito! - sprigiona un magnetismo inesauribile (si pensi alla street art, alle icone dello scrittore sui muri delle città). Il film “Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo, ad esempio, sembra una dimostrazione quasi “matematica” del teorema pasoliniano sul genocidio culturale: quella umanità ottusa e feroce della periferia residenziale può immaginare solo oggetti di consumo - auto, piscine gonfiabili, polo firmate - e non ha più nulla da insegnare o trasmettere ai figli. Il discorso di Pasolini - in forma di appello o requisitoria - si rivolgeva al cuore di tutti, anche a chi era escluso dal ceto “riflessivo” o intellettuale, proprio perché formulato in termini poetici, figurali, affidato cioè alla immediatezza di metafore semplici e potenti: il Palazzo, le Lucciole...Uno dei capi della Banda della Magliana era chiamato “Accattone”, perché ammirava e seguiva Pasolini. Riuscite a immaginare il personaggio di qualsiasi altro scrittore italiano - che so il Marcovaldo calviniano - che diventa il nomignolo di un criminale?
Ovviamente la sterminata produzione pasoliniana, raccolta in una singolare sfilza di Meridiani Mondadori, quasi enciclopedia d’autore a riempire uno scaffale, risulta multiforme, a volte franante o inafferrabile. Innumerevoli gli spunti, i temi, le suggestioni, le provocazioni. Tutto dà l’impressione febbrile del non rifinito, dell’assaggio, dell’abbozzo (per lo scrittore il non rifinito è più vicino alla verità delle cose). E certo per una conoscenza meno superficiale di quest’opera suggerirei - limitandoci alla scrittura - almeno le vibranti, personalissime recensioni letterarie, lo struggente romanzo giovanile (postumo) “Amado mio” e una scelta di poesie essenziali. Eppure gli scritti giornalistici ne rappresentano il compendio più fedele e ispirato. Dicono meglio, e paradossalmente in modo più “artistico”, ciò che troviamo in “Petrolio” (un geniale, straripante fallimento) o nei saggi lunghi (a volte pedanti) o in tanti versi velleitari (nella sua candida megalomania avrebbe voluto riscrivere perfino la Divina commedia). Negli “Scritti corsari” (e nelle Lettere luterane) ciò che sopravvive al tempo non sono tanto le “profezie”, spesso smentite - la fine dei dialetti, la stessa omologazione (avvenuta ma in una forma differenziata) - quanto un “metodo”, per quanto involontario, che li sottende. Di che si tratta? Non c’è parola, immagine, presa di posizione di Pasolini che non si possa ricollegare - in modo trasparente - alla base emotiva che l’ha prodotta. Questa l’essenza inimitabile del suo “metodo”. Nessun altro intellettuale pubblico da allora - se non in modo parziale Sciascia - è stato capace di questa corrispondenza. Per Brecht non c’è pensiero che non nasca da un desiderio: in Pasolini il legame tra pensiero e desiderio è sempre percepibile. Ed è la ragione per cui ogni volta sembra che stia parlando proprio a te, che lo stai leggendo in quel momento. Ed è l’autore che si rivolge soprattutto agli adolescenti di ogni epoca, in modo intimo e senza mediazioni, come pure faceva Camus (entrambi buoni giocatori di calcio nei campetti polverosi di periferia, il primo ala sinistra, il secondo - solitario - in porta).
Guardando il suo film-inchiesta “Comizi d’amore” c’è una cosa che colpisce subito: tutti gli intervistati, siano essi lo scrittore famoso, lo psicanalista autorevole o l’uomo della strada, i chiassosi vitelloni sulla spiaggia meridionale, le riservate impiegate venete, rispondono alle sue domande volentieri, senza ipocrisia, anche a quelle per quei tempi più scabrose. Probabilmente sentono che lo scrittore è sincero, disinteressato - solo gli “interessa” conoscere la verità - e allora gli si aprono pieni di fiducia. Quella disarmata sincerità è contagiosa. Certo, la sua biografia stessa è all’insegna della contraddizione: moralista e vitalista, passionale e ideologico, animato da spinta pedagogica ma poco fiducioso nella modificabilità delle persone, inseguito dal demone di una sensualità incontinente e tentato dalla castità. Amava la vita - niente di più fuorviante di chi sostiene che la notte dell’Idroscalo avesse pianificato la propria morte -, però l’amava in modo estremo e un po’ decadente, tanto da doverla mettere a rischio ogni sera. Il punto è che le sue laceranti contraddizioni non le occulta mai, e permette così a ciascuno di confrontarle con le proprie. Anche perciò per poterlo “giudicare” - e ci fu anche chi all’estrema sinistra, il giorno dopo la sua morte, parlò maramaldescamente di corruttore di giovani - bisognerebbe sempre partire onestamente dal proprio groviglio interiore, da quel “guazzabuglio” che è manzonianamente il cuore umano. Pensiamo di nuovo alla sua opera. Ora, in letteratura la “sincerità” è un punto di arrivo e un effetto retorico. Dipende da una “menzogna”, dall’artificio stilistico che lo scrittore elabora anzitutto per eliminare i cliché e gli automatismi della comunicazione spontanea (e lasciamo da parte le ambiguità del genere della “confessione” letteraria, per dissimularsi e mostrarci un profilo solo). Eppure - e Pasolini ce lo ricorda - per apparire sinceri un po’ bisogna esserlo davvero.