Nella continua riproposizione del “mito” in realtà lo si uccide all'infinito, non concedendogli di essere ciò che con amore è stato: un poeta, capace di vedere i segni delle eredità e di ciò che sopravvive - non del futuro dei viventi  

Pier Paolo Pasolini
L’ultimo intervistatore di PPP prescrive questa analisi alla storia del più celebrato tra i negletti e del più negletto tra i celebrati. L’estremo intervistatore è Furio Colombo. Se uccidere Pasolini era necessario, non era necessario che la morte fosse prevista con tanta puntalità. «Tu in questo momento non sai chi si sta preparando ad ucciderti», dice poche ore prima di morire l’autore de “Le ceneri di Gramsci” al giornalista che nell’88 sarà chairman della Fiat in Usa e dodici anni dopo direttore de l’Unità. Da questo colpo di dadi riuscito, Colombo trae l’auspicio: Pasolini era “profeta”, compiva una “santità rovesciata”.

Nelle “Lettere luterane” all’immaginario scugnizzo Gennariello lo scrittore impartiva una pedagogia dell’ambiguità: «Io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito» e a «non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci».

A insegnare questo è un intellettuale che si sente «un negro in una società razzista», la quale ha voluto galvanizzare se stessa fingendosi tollerante. Pasolini è perciò “un tollerato”, esattamente come i profeti in patria. Però nell’immenso corpus pasoliniano l’equivoco della profezia non si trova. Ne ha sbagliate moltissime, di profezie, il corsaro e luterano Pasolini. Se ha fenomenologizzato il consumismo e i movimenti del capitale geofinanziario e geopolitico (ma non più che fenomenologizzato: non c’è rimedio suggerito a questi mali, comminati dall’uomo e dal mondo a se stessi), possiamo osservare la mancanza di lungimiranza circa l’emersione di una tecnologia sempre più attiva che reattiva, la fine dello spettacolo, il crollo del testo come dispositivo che interpreta la realtà, l’esaurimento dei canoni tutti in una sorta di dopostoria. Tra la morte di Pasolini e lo sbarco dell’uomo su Marte trascorrono prevedibilmente sessant’anni. Ovvero lo iato che separa la nascita di Indro Montanelli dalla mia. Montanelli era ben in grado di profetizzare alcuni tratti sentimentali, e quasi genetici, della mia generazione, di ciò che erano “i giovani” quando ero giovane io. Pasolini non riesce affatto a profetizzare Marte, raggiunto grazie agli algoritmi che incidono biologicamente sulla specie, trainandola fuori da una pandemia di mediobassa entità.

Scrive ne “La religione del mio tempo”, mentre cerca di comprendere cosa ci sia di religioso nell’epoca che vive: «Molte volte un poeta si accusa e calunnia, / esagera ... / È anche troppo acuto nell’analisi dei segni / delle eredità, delle sopravvivenze ... / Guai a lui! Non c’è un istante / di esitazione: basta solo citarlo!». In questa citazione continua, in questa riproposizione del “mito” Pasolini, santo rovesciato e profeta che antivede tutto, si uccide infinitamente Pasolini, non concedendogli di essere ciò che con amore è stato: un poeta, capace di vedere i segni delle eredità e di ciò che sopravvive - non del futuro dei viventi.