Le città? Non sono di nessuno perché sono di tutti
Le piazze. L’ambiente. L’informazione. Dietro il rilancio dei beni collettivi c’è la riscoperta della comunità. E delle radici antiche del diritto
Insieme ad altre opposizioni fissate nella memoria collettiva – tra Stato e società, artificio e natura, politica e tecnica – anche quella tra pubblico e privato va perdendo terreno. Il confine, a lungo infrangibile, che li separava, si fa sempre più sfumato e poroso. Tra beni pubblici e beni privati vanno nascendo punti d’incrocio e modelli misti che non appartengono né ai primi né ai secondi. In verità già in un libro di venti anni fa, “Beni pubblici beni privati. Origine e significato di una distinzione” (Donzelli) Raymond Geuss aveva picconato questa dicotomia tradizionale. Per quanto lo si voglia teorizzare, come è stato a lungo fatto dalla tradizione liberale, il contrasto tra pubblico e privato, appena tradotto in pratica, rivela la propria debolezza. Per J. S. Mill e J. Dewey, ad esempio, sono private le azioni che generano effetti solo su chi le compie, mentre sono pubbliche quelle che riguardano anche altri. Ma la stessa idea di “generare effetti” è talmente indeterminata da perdersi nella infinita varietà dei casi. Se lo spazio privato è più facilmente definibile, cosa deve intendersi per pubblico – ciò che appartiene allo Stato o ciò che è nella disponibilità di tutti?
Già nel diritto romano, cui si fa indebitamente risalire la separazione tra privato e pubblico, le cose sono assai meno semplici. Intanto perché, propriamente parlando, a Roma non esisteva un diritto pubblico. E poi perché, all’interno delle cose pubbliche, vi era una precisa distinzione tra quelle appartenenti allo Stato, come i territori conquistati ai nemici, e le cose di nessuno, e dunque di tutti, come piazze, strade, teatri, acquedotti. È proprio a partire da questa distinzione di principio che negli ultimi anni ha preso vita la discussione sui beni comuni, coinvolgendo giuristi, filosofi, antropologi.
Beni comuni sono l’acqua, in quanto indispensabile alla vita; le piazze, come luogo d’incontro e socializzazione; l’informazione, perché canale di civilizzazione e sviluppo collettivo. L’attenzione crescente a tale tematica, più che determinare una vera svolta politica, testimonia una crescente sensibilità per temi riconducibili alla “comunità” e al “comune”– “Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo” è il titolo del poderoso volume di Pierre Dardot e Christian Laval (DeriveApprodi, con una prefazione di Stefano Rodotà). Nel 2009 è stato assegnato il premio Nobel all’economista Elinor Ostrom per un lavoro su “Governing the Commons”. Nello stesso periodo veniva istituita in Italia la Commissione Rodotà per le Riforme dei beni pubblici, cui è seguito il referendum per la pubblicizzazione delle fonti idriche. I vertici internazionali sul clima, fino alla Conferenza di Parigi, poi sabotata da Trump, rientrano nello stesso orizzonte d’interesse: quale bene più comune per l’intero genere umano dell’ambiente naturale? E non sono beni comuni, compresa la sopravvivenza di chi è a rischio di morte, quelli di cui si occupano, a vario titolo, le organizzazioni non governative?
Ma oggi siamo di fronte a un fenomeno ancora più esteso. Che dà un’ulteriore spallata all’opposizione moderna tra pubblico e privato. Intanto, dopo anni di selvaggia privatizzazione di beni pubblici, si torna a parlare di nazionalizzazione di compagnie aeree, manutenzione di autostrade, imprese industriali. Tutte cose piuttosto complicate in un’economia di mercato come la nostra, ma che sono comunque spia di un mutamento del clima politico. Ma non è tutto. Da tempo si assiste, in diverse località italiane, a una tendenza da parte di privati, riuniti in associazioni o fondazioni, ad acquisire spazi dismessi o abbandonati come caserme ed edifici inutilizzati. Non per ricavarne un profitto, ma per metterli a disposizione del pubblico, una volta trasformati in luoghi di socializzazione culturale quali teatri, biblioteche, contenitori d’arte e di eventi musicali.
Come spesso accade di questi tempi, ci troviamo di fronte ad eventi inaspettati che sconvolgono le vecchie coordinate e soprattutto vanno in direzione opposta alla deresponsabilizzazione che pure appare la tendenza dominante di questa stagione. In verità non bisogna confondere fenomeni diversi. Come le recenti piazze piene di giovani non sono assimilabili a quelle, più politicizzate, della prima Repubblica, così questa “invenzione” di spazi pubblici da parte di soggetti privati collettivi non è immediatamente connotabile in termini politici. Perché ciò avvenga non dovrebbe rimanere affidata solo alla buona volontà di cittadini riuniti da passioni comuni. Che, certo, non guasta. Ma che, per acquisire un significato politico, andrebbe istituzionalizzata, cioè fornita di un profilo giuridico. Vero è che queste “pubblicizzazioni private” sono consentite da normative emanate dai comuni di appartenenza. Ma sempre in forma provvisoria e inorganica.
Oggi la vera battaglia, politica e culturale, verte sul ruolo delle istituzioni e, più precisamente, sul carattere istituente del diritto. Il diritto non è solo quello che vincola i comportamenti attraverso la minaccia di sanzioni, ma anche quello che istituisce nuove forme di vita comune. La creazione di uno spazio pubblico non può essere circoscritta all’iniziativa privata. Va prodotta da un nuovo diritto che ponga al centro la categoria di “uso”, certo non contro, ma a fianco a quella di proprietà. Si tratta di lavorare a una triangolazione giuridica che ha per vertici, compatibili ma diversi, il privato, il pubblico e il comune. Fare uso di qualcosa che non ci appartiene significa poterla lasciare all’uso degli altri come una risorsa disponibile per chiunque. La vera alternativa che oggi si pone non è tra beni pubblici e beni privati, ma tra possesso e uso. In questo senso, dopo duemila anni, si torna a guardare a quell’antica distinzione romana tra beni pubblici – appartenenti allo Stato – e beni comuni, di proprietà di nessuno, ma disponibili per tutti. A Roma erano appropriabili dai cittadini solo i beni non riservati agli dei e alla città.
Che rimanevano a disposizione della cittadinanza. Naturalmente un universo ci separa da quella lontana civiltà giuridica, non priva di inaudite durezze. Eppure qualcosa ci riporta ad essa. Forse non è un caso che a tornare sul tema dei beni comuni sia stato recentemente proprio uno storico del diritto romano, Aldo Schiavone, in una magistrale genealogia dell’eguaglianza, edita da Einaudi col titolo “Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia”.