Coronavirus, le sei parole fondamentali con cui la letteratura racconterà l'epidemia
Il virus, la paura, l’isolamento sono temi irresistibili per la fantasia di un narratore. C’è da scommettere, perciò che la crisi di questi giorni si tradurrà nei prossimi anni, nell’esplosione di un genere letterario nuovo. Da maneggiare con cura
«È stata svelata ieri, alla nuova edizione di Libri Come, la dozzina che concorrerà alla fase finale del Premio Strega 2022. Nel presentare alla stampa e agli Amici della Domenica i titoli selezionati dal comitato direttivo, la presidentessa Melania Mazzucco ha approfittato della cerimonia per formulare qualche considerazione generale sullo “stato di salute” della letteratura italiana. In sala tutti hanno riso alla battuta, perché – come aveva notato in apertura la scrittrice romana – ben quattro libri ammessi al concorso, dunque esattamente uno su tre, raccontano direttamente o indirettamente la grande crisi sanitaria degli ultimi due anni».
Qualche volta i cicli letterari sono davvero prevedibili. E non è difficile provare a immaginare, con un biennio esatto di anticipo, l’inizio di un ipotetico articolo sui romanzi ammessi alla LXXVI edizione del Premio Strega. Noi scrittori, si dice, avremmo il dono di battere sul tempo i nostri contemporanei mettendo a fuoco prima degli altri problemi e inquietudini che spesso diventano evidenti solo più tardi: un grande critico come Giacomo Debenedetti paragonava gli artisti a dei parafulmini, capaci di intercettare in anticipo le nevrosi e le ansie che a fasi alterne si abbattono sulla società in forma di folgori. Alle volte però procediamo anche in maniera singolarmente gregaria: ieri i romanzi sul precariato; oggi gli innumerevoli memoir sulla elaborazione di un lutto; domani – senza dubbio – il coronavirus. Dobbiamo dunque prepararci. Si continuerà a scrivere libri, dopo. E, come sempre avviene, alcuni di questi saranno buoni e persino ottimi. Il cinismo di Michel Houellebecq qui può tornare addirittura utile. Parodiando la famosa affermazione di Theodor Wiesegrund Adorno sulla impossibilità di fare letteratura dopo i campi di sterminio nazisti, una ventina di anni fa l’ex enfant terrible della narrativa francese espresse un giudizio che fece scalpore: «Dopo Auschwitz si scrivono libri di fantascienza migliori». Vale a dire più cupi, più estremi, meno infantili di quello che era successo ai primordi del genere. L’orrore aveva liberato delle energie creative.
La fantascienza, ovviamente, ha molto a che spartire con il coronavirus. È questa anzi, probabilmente, una delle principali scoperte dell’emergenza. Non abbiamo metri di paragone, e persino chi ha potuto ascoltare i racconti dei propri nonni sull’epidemia di Spagnola del 1918 non riesce a riconoscersi in quelle vicende così remote. Eppure, al tempo stesso, c’è dappertutto un’aria di déjà vu. Dove ho visto quelle strade così vuote? Dove quegli uomini con gli scafandri che disinfettano gli ambienti? Ah, sì: al cinema. La stessa esperienza che tocca in sorte a molti europei quando sbarcano per la prima volta a New York e vedono una colonna di fumo che esce da un tombino in mezzo alla strada.
Eppure questo non vuol dire affatto che i romanzi dello Strega 2022, e tutti gli altri che si scriveranno attorno al coronavirus, saranno “storie di previsione”, come gli appassionati chiamano i racconti che provano a rappresentare un futuro così prossimo da confondersi col nostro presente. Tutto al contrario. Come è ragionevole che accada, ognuno declinerà il tema del momento secondo le proprie inclinazioni. Ci saranno dunque romanzi intimisti e avventure sature di azione. Alcuni sfrutteranno la dimensione globale della pandemia e altri la declineranno in chiave claustrofobica. I più letterariamente consapevoli si ricorderanno magari della lezione di Jorge Luis Borges: «In un indovinello sulla scacchiera quale è l’unica parola proibita?» «La parola scacchiera».
La verità è che virus ed epidemie costituiscono da sempre un soggetto irresistibile, per gli scrittori come per i lettori. Nei primi giorni della malattia le pagine culturali dei giornali hanno doviziosamente ricordato a tutti un canone di inaggirabili. Ciò che conta, però, è il persistente fascino letterario delle malattie contagiose. Un fascino che può essere spiegato in sei semplici parole.
Uno: accelerazione. Mentre il virus si diffonde attorno a loro, uomini e donne continuano a fare le cose di sempre: mangiano, scherzano, litigano, sognano, si innamorano. Davanti alla concreta prospettiva della morte tutto però diventa immediatamente più intenso («Questo potrebbe essere l’ultimo sorso di birra», «La vedrò più sorridere?», «Chissà se avremo il tempo di parlarci ancora»). Nel pericolo, la consapevolezza della fine, di colpo fattasi quasi tangibile, esalta il meglio e il peggio della specie umana. Le scelte morali si fanno estreme e non più rimandabili. Trionfa la solidarietà (il grande tema del “La Peste” di Camus), ma avanza anche l’homo homini lupus. I rapporti di forza economici si fanno di colpo più violenti, ma persino la ricchezza più sfacciata scopre di non poter comprare l’immunità. Le ingiustizie normali della società cui spesso preferiamo non badare vengono smascherate dall’emergenza.
Due: quotidianità. Ovviamente le epidemie non sono l’unica situazione in cui gli uomini sono costretti a fare i conti con la presenza costante del pericolo e a confrontarsi con la vita nuda, al netto dei rituali sociali. La guerra. I viaggi per terra e per mare. Eppure in tutti questi casi la caduta delle apparenze ha a che fare con lo spaesamento dell’alterità: quasi che, per liberarci delle lenti colorate che offuscano quotidianamente la nostra visione dando agli oggetti delle rassicuranti tinte pastello, dovessimo per forza allontanarci da casa. L’epidemia no. L’epidemia è lei a raggiungerci nei luoghi e nei contesti a noi più familiari. E questo, in qualche modo, appare ancora più spaventoso. Solo la guerra civile le assomiglia. Come sospira il partigiano Milton in “Una questione privata” di Fenoglio: «Le aveva sempre pensate, le colline, come il naturale teatro del suo amore (…) e gli era invece toccato di farci l’ultima cosa immaginabile, la guerra».
Tre: permeabilità. Gli antropologi insegnano che persino le comunità più semplici si organizzano attorno a una serie di alternative elementari che permettono di tracciare frontiere rassicuranti. Sì, no. Dentro, fuori. Anche in questo però le epidemie assomigliano alle guerre civili: le identità non sono più stabilite una volta per tutte; l’aggressione, questa volta, potrebbe venire dall’interno. La minaccia è potenzialmente tra noi perché i confini sono, evidentemente, diventati porosi. Chiunque può diventare infatti agente del virus. E inconsapevolmente colui che combatte al nostro fianco può già ospitare, senza volerlo, la malattia che potrebbe colpirci. Come in una storia di zombie o di vampiri.
Quattro: profanazione. Ancora una volta come nei racconti e nei film di zombie e di vampiri, nelle epidemie nessuno è innocente: neppure gli innocenti per definizione. Il male può annidarsi dappertutto, ma è più pericoloso ancora quando alberga in coloro che amiamo e che meno considereremmo capaci di nuocerci. In questo caso soprattutto il cinema ha esplorato le possibilità narrative di una degradazione del mondo che corrompe anche i legami più sacri: dalla bambina morta vivente di “Zombie” di George Romero alla dolcissima, e per questo terrificante, bimba vampira di “Lasciami entrare” di Tomas Alfredson. Niente eccezioni. Perché, semplicemente, la purezza non esiste e forse non è mai esistita (ecco una idea irresistibile per una società freudianizzata come la nostra). E magari anzi, prima dell’ultimo fotogramma, potrà essere necessario scegliere tra quell’angioletto dai boccoli d’oro e la sopravvivenza dell’intera comunità.
Cinque: indifferenza. La nostra vulnerabilità nei confronti di coloro che amiamo è una delle cose che rendono così spaventose le epidemie. Ma questo surplus di coinvolgimento è sempre solo a una direzione. Il virus in sé, a rigore, non è nemmeno cattivo (in questo, ancora una volta, come gli zombie). E gli untori che si divertono a diffondere la malattia hanno da tempo smesso di popolare il nostro immaginario solo perché appaiono assai meno terrificanti di un esserino acellulare che si diffonde e ci annienta senza astio, per puro desiderio di moltiplicarsi, infestandoci come un parassita. Invisibile a occhio nudo, il microorganismo che potrebbe ucciderci non nutre sentimenti ostili. È un puro numero: l’assoluto grado zero del negativo.
Sei: pericolosità. Le pandemie possono essere letali, e agli scrittori non dispiace flirtare con il tema dell’Apocalisse. È uno dei tanti modi di giocare a Dio che hanno. E i lettori, cosa non meno importante, dimostrano in genere di apprezzare molto...
No, non capita tutti gli anni un tema letterariamente così promettente. Occorrerà allora non sprecarlo, perché se l’epidemia affascina scrittori e lettori, essa va anche maneggiata con cautela, come le fiale di virus letale nei film. Sbagliare è facile, e le soluzioni più allettanti non sono necessariamente le migliori. Forse il più straordinario caveat rispetto ai rischi insiti nella grande metafora della malattia può venirci allora da uno scambio di pareri tra Camus e Roland Barthes al momento della pubblicazione de “La Peste”. Camus aveva concepito il proprio romanzo come un’allegoria dell’Occupazione della Francia: i bacilli che nel libro portavano alla morte la popolazione di Orano stavano per le armate di Hitler, e la solidarietà tra i cittadini della città algerina non era che il movimento clandestino di resistenza. Barthes, da giovane militante comunista, non poteva però essere d’accordo. L’etica della solidarietà promossa da Camus aveva infatti senso contro un male naturale, ma rischiava di rivelarsi inefficace davanti a un male prettamente storico come quello del nazismo, che aveva posto i francesi davanti a ben altre scelte (come comportarsi con i collaborazionisti? A che punto fingere di cooperare col nemico? Accettare il rischio delle ritorsioni sui civili?). Come forma letteraria, l’allegoria era legittima, ma in quel preciso caso l’immagine scelta da Camus risultava ingannevole e politicamente sbagliata: finiva per occultare proprio quegli interrogativi che avrebbe dovuto sollevare con la dovuta radicalità.
Almeno da questo punto di vista le cose non sono troppo diverse. Ogni volta che il male naturale smette di illuminare il male storico per sostituirsi ad esso (e nasconderlo), come ne “La Peste”, cominciano i problemi. E, in un tempo di rinnovate ansie per l’altro e il diverso, bisogna augurarsi che – attraverso la somiglianza tra i malati di coronavirus e gli altrettanto contagiosi morti viventi dei film – qualcuno non finisca per convincersi che la migliore soluzione per arginare la potenziale invasione di nuovi agenti patogeni sia quella di trattare chi si avvicina troppo e viola i confini letterali o simbolici a bordo di un gommone con le stesse misure estreme riservate agli zombi negli horror movies: una pallottola in testa.
I romanzi sull’epidemia forse sono inevitabili. Ma può fare una grande differenza il modo in cui tra qualche anno questo coronavirus verrà raccontato. Meglio perciò pensarci sin da adesso. Forza, colleghi scrittori! Cominciamo a disporre i nostri parafulmini. Il 2022 è spaventosamente vicino.