Dopo il coronavirus il nostro pianeta sarà tutto da rifare
Ripensare lo sviluppo della Terra, l'impatto dell'umanità, il diritto alla salute. Il dialogo sul futuro tra un costituzionalista e un epidemiologo: Gustavo Zagrebelsky e Paolo Vineis
Dove inizia la difesa del diritto alla salute? Di fronte ai sintomi individuali di una malattia? O prima, nella protezione di quell’ambiente che, avvelenato, diventa tramite di pandemie come quella che stiamo attraversando? E lo stress che il contagio impone agli ospedali, deve portarci a cambiare approccio sanitario? Infine: quanto potranno durare le misure di contenimento? Queste, e altre domande, sono al centro di questo dialogo fra il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e l’epidemiologo Paolo Vineis. Guardando al problema, il primo da docente di Diritto costituzionale ed ex presidente della Consulta, il secondo da studioso di cambiamenti climatici e salute all’Imperial College di Londra.
Il 21 marzo i medici dell’ospedale di Bergamo hanno scritto una lettera alla rivista “Catalyst” del New England Journal of Medicine sollevando diversi interrogativi nati dalla gestione dell’emergenza. La crescita dei contagi, scrivono, richiede un approccio sanitario rivolto alla comunità prima che al singolo paziente. È la proposta di un cambiamento profondo? VINEIS: «Mi ha colpito la lettera dei medici al Nejm. Non capita spesso che dei clinici si appellino alla sanità pubblica. La loro lettera segna un cambiamento di prospettiva a lungo atteso, non solo in relazione a Covid-19. Il punto che loro sollevano è innanzitutto che nelle emergenze non possiamo affidarci solo alla medicina ospedaliera ma anche a quella territoriale, come e’ successo in regioni diverse dalla Lombardia. Inoltre, quando avremo in qualche modo superato la pandemia - che lascerà di certo un mondo completamente trasformato - dovremo ricominciare a pensare molto seriamente a prevenire altre epidemie e gli effetti del cambiamento climatico. Non possiamo più permetterci una politica di breve respiro. Ora abbiamo tutti la percezione che la difesa della salute inizia molto prima e lontano dalla comparsa di alterazioni biologiche negli individui. E che è fondamentale reinterpretare il diritto alla salute secondo queste nuove conoscenze. Se invece consideriamo la Costituzione, l’enfasi è ancora molto sull’accesso individuale alle cure. Ma questo è un argomento per Zagrebelsky».
ZAGREBELSKY: «Nella Costituzione, all’articolo 32, si possono trovare molte cose: la salute come accesso individuale alle cure (“fondamentale diritto dell’individuo”); la salute come auspicata condizione sanitaria generale (“interesse della collettività”) e la salute come obbligo stabilito per legge (i “trattamenti sanitari obbligatori”). Dunque: diritto, interesse, obbligo. Diritto e obbligo hanno un preciso significato giuridico: il diritto riguarda l’accesso alle cure; l’obbligo, la sottoposizione alle cure. In entrambi i casi chi è preso in considerazione è l’individuo. La salute come interesse della collettività si distacca da questa visione per così dire, atomistica perché il suo soggetto è generale e l’interesse non è collegato ad alcuna situazione o trattamento specifico. L’esigenza sottolineata da Paolo Vineis all’unisono con i medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo riguardo alle epidemie e alle pandemie - difendere la salute prima e lontano dalla comparsa di alterazioni biologiche individuali che portano alla ospedalizzazione – trova qui un riscontro costituzionale puntuale e impone di posare lo sguardo sulle condizioni che in generale influiscono positivamente o negativamente sulla salute della popolazione, collettività o comunità come la si voglia definire».
VINEIS: «Potremmo parlare anche del diritto collettivo a non essere inutilmente esposti a rischi come quelli che originano dalla deforestazione o dagli allevamenti, o da produzioni che generano gas serra. Chiedo a Zagrebelsky se non si possa considerare questo mutamento di prospettiva nelle Costituzioni, in particolare in un mondo in cui il battito delle ali di una farfalla può provocare una catena di eventi che scatena un uragano nell’altra parte del mondo, secondo la nota metafora».
ZAGREBELSKY: «La legislazione e soprattutto la giurisprudenza hanno stabilito che nel diritto alla salute è compreso il diritto di vivere in condizioni di salubrità. In questo modo, quello che nella Costituzione è definito un semplice interesse diventa un vero e proprio diritto che può essere fatto valere di fronte al giudice in vista di risarcimenti o di imposizioni di determinati comportamenti virtuosi o di cessazione di altri dannosi. La vicenda dell’Ilva di Taranto è significativa ma limitata, rispetto alle esigenze sottolineate dal professor Vineis. Infatti, Taranto e casi analoghi hanno pur sempre alla base specifiche situazioni già verificatesi di degrado ambientale con conseguenze sulla salute della popolazione. La questione, in relazione alle epidemie, è di natura preventiva: agire per impedirle o almeno per non causarle, ancor prima di curare. L’ambiente e la popolazione, ancora prima degli ospedali e dei malati».
Inquinamento, accesso a risorse essenziali come acqua pulita, riduzione dei rischi di nuovi spillover, produzione alimentare sana: questi dovrebbero ora essere vissuti come problemi di salute pubblica? VINEIS: «Assolutamente sì. Per qualche anno all’Imperial College ho avuto un collaboratore, Kris Murray, che faceva un lavoro a mio avviso essenziale: cioè costruiva modelli matematici sulla diffusione delle zoonosi nel pianeta, e cercava di capirne i percorsi causali. Già allora identificò l’importanza della wilderness (la natura selvaggia) e della biodiversità in queste reti causali. In tempi più recenti Hiral Shah, uno studente di PhD, ha studiato l’impatto dell’agricoltura sulle zoonosi, e ora sta scrivendo la tesi sugli effetti dei commerci internazionali sulle zoonosi nei paesi in via di sviluppo. Questo è il tipo di ricerca di cui abbiamo bisogno, da trasferire poi nella pratica preventiva. Molto a monte degli effetti finali, che preferiremmo non vedere. Il trasferimento nella pratica potrebbe poi seguire l’esempio delle linee-guida della medicina clinica e tradursi in indicazioni per i governi: per esempio, rendere gli allevamenti più sostenibili sul piano ambientale e sanitario».
ZAGREBELSKY: «Per quanto si sia consapevoli, tanto più nella situazione in cui ci troviamo, che le filosofie e i voli pindarici siano stonature fuori luogo, non posso accantonare un’idea che viene dal passato. L’idea che la Terra e il cosmo debbano essere presi in considerazione dal diritto come tali in quanto anch’essi esseri viventi, col loro equilibrio, le loro leggi, la loro salute e le loro patologie. Forse dobbiamo cessare di considerare la Terra un oggetto a nostra illimitata disposizione, dal quale possiamo estrarre tutti i materiali grezzi che desideriamo, che possiamo alterare a piacimento, che non ha una sua vita propria, che può morire trascinando tutto e tutti nel disastro. Anima mundi, dicevano gli antichi, dove “anima” significa principio, legge, armonia vitali, e mondo significa essere dotato di anima, animato, vivente; essere che può essere in buona salute ma può anche deperire e perfino morire? Le pandemie non potrebbero forse essere viste come malattie che infettano il grande “animale”? Da questo punto di vista, potremmo essere noi il virus della Terra al quale l’animale si sta ribellando. La febbre degli infettati, allora, non sarebbe la malattia ma, come tutte le febbri, il sintomo fisiologico d’una reazione in corso».
Uno shock. Che ci cambierà per sempre? ZAGREBELSKY: «Le infezioni e le malattie accompagnano da sempre la vita degli esseri viventi, ma Paolo Vineis non parla di queste, quanto delle diffusioni pandemiche. E si chiede se le cause di quelle passate, presenti e future non sia il virus in sé, ma siano cose come le deforestazioni, lo stravolgimento di interi habitat naturali, l’inquinamento e il deperimento delle capacità respiratorie, il cambiamento climatico e la desertificazione, le condizioni di vita subumane, la concentrazione di milioni di persone in mostruose città, baraccopoli, slum, favelas dove non sappiamo neppure che cosa succede dal punto di vista sanitario. Se c’è da credere in almeno qualcuna di queste cause, allora dobbiamo concludere che la “guerra contro il virus” non dovrebbe essere, per l’appunto, solo “contro il virus”, ma contro le esasperazioni che sono contenute nella “civiltà dello sviluppo”. E, se ciò ha qualche probabilità di cogliere aspetti della realtà, l’idea facile di “ritornare come prima” una volta passata la buriana e non cogliere gli avvertimenti ch’essa contiene è troppo facile e ci esporrebbe a ritorni che, del resto, gli epidemiologi prevedono a un ritmo regolare, nella società mondializzata».
VINEIS: «In questo senso, se la chiusura dei confini è una specie di reazione istintiva, è anche una reazione perdente. Mi piace riferirmi sempre alla distinzione di Daniel Kahneman sul cervello veloce, quello degli istinti, e il cervello lento, quello corticale della riflessione. Il primo entra in gioco nella reazioni di attacco o fuga di fonte a un pericolo (ma anche nelle nostre reazioni veloci e istintuali nel web, come “like” e “dislike”). Questo tipo di uso del cervello andava bene nella preistoria, non in un mondo globalizzato. Oggi dobbiamo prevedere e prevenire, il che richiede una rete di organismi politici strettamente connessi a quelli scientifici. L’Oms è qualcosa del genere, anche se dovrebbe essere potenziata. È paradossale che in un mondo in cui vediamo gli effetti negativi della globalizzazione, come le pandemie e il cambiamento climatico, non riusciamo a costruire un sistema politico (un “buon governo” mondiale) che si muova in sintonia. Inoltre le decisioni impellenti di sanità pubblica (e mi riferisco di nuovo al cambiamento climatico) devono essere indipendenti dagli interessi commerciali di questo o quel paese o di alcune industrie. Non è più accettabile che quando l’Agenzia Internazionale per le Ricerche sul Cancro solleva il problema della cancerogenicità del glifosato divenga oggetto di ogni genere di attacchi. La maggior parte di questi attacchi sono guidati dall’industria, ma anche ammettendo che alcuni siano in buona fede (e di certo alcuni ricercatori lo sono), denotano una visione miope dei problemi odierni dell’agricoltura».
È una prospettiva di lungo raggio. Tornando alla crisi attuale, quali passi bisogna compiere per immaginare un’uscita? VINEIS: «I centri più accreditati stanno cercando di utilizzare al meglio i dati disponibili per effettuare proiezioni sull’impatto di diverse strategie di uscita, come rilassare periodicamente le misure di contenimento, per esempio in alcune fasce di età e in alcune aree geografiche. Il problema è evitare di avere una pandemia generalizzata e sincrona in tutto il paese, modulando gli interventi in modo che la situazione sia gestibile per esempio dal punto di vista della disponibilità di terapie intensive. È l’idea dello “stop-and-go”».
Nello “stop”, ovvero nel contenimento, ci sono aspetti costituzionali da non dimenticare. ZAGREBELSKY: «Il peso delle limitazioni alla libertà, come sempre, ricade maggiormente su coloro che dispongono di relazioni umane e risorse materiali minori. Dobbiamo accettarle o rifiutarle in nome dei diritti e perfino della democrazia? Vedo che si sta diffondendo, soprattutto tra alcuni intellettuali, il timore che sia la prova generale per un buio futuro, quasi un test sul grado di accettazione, rassegnazione, passività del corpo sociale per sapersi regolare di fronte alle future repressioni del malcontento popolare. Questa idea è per ora marginale, ma potrebbe crescere con il prolungarsi dell’emergenza e l’aumento dei relativi disagi. Quando si tratta di libertà e democrazia, le cautele non sono mai troppe. Ma come potrebbe scambiarsi il coprifuoco a Santiago del Cile imposto da Pinochet con le nostre limitazioni alla circolazione per motivi di salute pubblica? Nei regimi antidemocratici si tratta di misure poliziesche imposte come un violento sopruso; qui invece è un’altra cosa. L’obiettivo non è la dittatura ma la salute e la vita, i più democratici dei diritti. L’adeguatezza a questo obbiettivo misura la legittimità dell’emergenza, sia nella sua durata sia negli obblighi che s’impongono. L’emergenza non è un’autorizzazione in bianco al governo. Non implica affatto i “pieni poteri”, né alla Salvini, né alla Orbán. È, invece, un’autorizzazione necessariamente proporzionata allo scopo: proporzione che esclude l’arbitrio. Nei momenti eccezionali, i regimi democratici esaltano il ruolo del governo, ma contemporaneamente anche le responsabilità del Parlamento che deve controllarlo. È una cautela che le costituzioni democratiche si danno, stabilendo che per tutta la durata dell’emergenza il Parlamento è riunito in permanenza».