L'industria dei semiconduttori in mano a Pechino e Washington, il cloud dominato da giganti come Amazon e Microsoft, il 5G che vede la cinese Huawei in vantaggio, Giappone e Corea al lavoro sul 6G. In tutto questo il Vecchio Continente continua a restare immobile
Oltre 500 Comuni in Italia hanno adottato provvedimenti contro l’installazione delle antenne per il 5G, nonostante le rassicurazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha parlato di una psicosi immotivata, e della Commissione europea. Quest’ondata di protesta non è estranea agli altri Paesi europei, dove proliferano i gruppi No5G o Stop5G, alimentati da paure senza fondamento del rapporto tra il 5G e il coronavirus, e talvolta caratterizzati anche da azioni violente verso le antenne. Oltre che con questo tema sociale, il 5G deve confrontarsi con il conflitto tra Stati Uniti e Cina. Mentre prosegue in Canada il processo sull’estradizione della direttrice finanziaria di Huawei Meng Wanzhou, non si attenua la pressione di Washington verso l’Unione Europea e la Gran Bretagna, per le decisioni sul coinvolgimento dell’azienda cinese nelle loro reti. Una partita che, come è ormai evidente, non è solo economica, ma ha un valore strategico.
Qual è il significato complessivo di queste vicende? Ci insegnano che la rivoluzione del 5G non è automatica. Le società di consulenza negli ultimi anni hanno sciorinato dati mirabolanti sul suo impatto, ma hanno dimenticato un punto decisivo: ogni trasformazione digitale è sottoposta a vincoli sociali e geopolitici, che portano a rallentamenti, accelerazioni, contrattazioni tra governi per ragioni di politica estera. Questo punto è valido anche quando l’importanza del 5G è accentuata dalla nuova pervasività digitale delle nostre vite, che mette realmente sotto pressione le reti esistenti. Alle necessità tecnologiche si accompagnano sempre le scelte geopolitiche, ma anche le capacità culturali. Proprio il punto di vista culturale è sottolineato dall’ultimo rapporto Desi (Digital Economy and Society Index) della Commissione europea, in cui l’Italia si trova in una buona posizione in termini di preparazione al 5G, ma conferma ampi ritardi sulla capacità del capitale umano e sulla digitalizzazione delle imprese. A mio avviso, in futuro gli Stati competeranno sempre di più proprio sulla cultura digitale e sulla capacità di diffusione dell’innovazione, oltre gli ecosistemi urbani: anche negli Stati Uniti, durante la pandemia, si è sviluppato un importante dibattito sugli enormi divari digitali tra città e campagne.
Se volgiamo lo sguardo verso il Pacifico, ci imbattiamo in uno scenario avveniristico: l’accelerazione sul 6G. Il lavoro sugli standard di telecomunicazioni non si interrompe mai, e di recente la Corea del Sud ha annunciato la volontà di primeggiare nel 6G grazie all’impegno di Samsung (un gigante tecnologico mondiale che viene spesso sottovalutato) e di LG Electronics. Il Giappone vuole utilizzare il 6G per recuperare terreno sui mercati internazionali delle infrastrutture di telecomunicazioni. Gli Stati Uniti, che hanno appreso alcune lezioni dall’ascesa di Huawei, possono guardare al 6G per un contrattacco verso la Cina, secondo una traccia che ha esposto Martijn Rasser su Lawfare. In una recente intervista Eric Schmidt, già capo di Google e oggi alla guida del Defense Innovation Board del Pentagono, ha ammesso di aver sottovalutato per troppo tempo le capacità cinesi, andando dietro a un’idea stereotipata delle loro industrie, considerate in grado soltanto di copiare. Per competere sul serio, secondo Schmidt, la forza della strategia cinese va riconosciuta, e va superato il velo di ipocrisia sul ruolo essenziale dei governi nel supportare la ricerca. Nella corsa cinese, un ruolo di primo piano è giocato dalla penetrazione nei corpi globali che si occupano degli standard: non a caso, il nuovo piano cinese sulla tecnologia si chiama Standards 2035, e punta a rafforzare il ruolo di Pechino nei luoghi poco noti in cui vengono elaborate le regole, come l’International Telecommunication Union, l’organizzazione creata nel 1865 per gestire le prime reti del telegrafo e oggi guidata dal cinese Houlin Zhao.
In questo scenario, qual è la sfida davanti all’Europa?I problemi che Naomi Klein ha posto sull’Espresso non vanno sottovalutati. Per non essere ingenui, non dobbiamo praticare un luddismo senza costrutto, ma allo stesso tempo dobbiamo sempre pensare la tecnologia in rapporto al potere. È stata già ampiamente smentita l’idea propagandistica che le grandi aziende digitali si muovano nell’iperuranio, in nome della loro supposta “bontà” e non dei profitti, o della forza inevitabile della “connettività”. Basta con le favole. Si tratta di attori inseriti nei conflitti globali tra i capitalismi politici, e che stanno in relazione con le loro potenze di appartenenza.
Non ricordiamo abbastanza che dieci anni fa, a parte Evgeny Morozov, pochi mettevano in dubbio che qualche tweet avrebbe radicato la “democrazia” in Medio Oriente. Gli elementi di sorveglianza della tecnologia, e i suoi effetti politici e sociali, vanno considerati con serietà, come merita attenzione il potere di mercato accumulato da alcuni conglomerati digitali, una questione democratica che ha fatto crescere un nuovo dibattito sull’antitrust. C’è un altro punto essenziale: la tecnologia digitale non è eterea, ma ha una fondamentale dimensione fisica, di infrastruttura materiale, che abbiamo stupidamente dimenticato. Soprattutto in Europa e in Italia, nonostante i moniti di alcune voci che gridano nel deserto, come quella di Juan Carlos De Martin, co-direttore del Centro Nexa presso il Politecnico di Torino.
Del rischio per l’Europa di diventare “colonia tecnologica” si parla da almeno trent’anni: basta leggere gli interessanti libri degli anni ’90 di Konrad Seitz, ambasciatore tedesco in Italia e in Cina, che lanciavano un allarme al quale non è mai corrisposta un’azione adeguata su temi fondamentali come i semiconduttori (al centro della competizione tra Pechino e Washington), i cavi sottomarini, il cloud oggi dominato da giganti come Amazon e Microsoft. Su questi aspetti si misura sempre la distanza tra annunci e risultati. Già nel 2017 Macron proponeva in discorsi roboanti la costituzione di una Darpa europea, un’agenzia sull’innovazione in grado di rivaleggiare con il Pentagono. Vaste programme, finito su un binario morto. Nel prossimo futuro, sarà importante capire il ruolo della European Defense Agency per promuovere l’innovazione, anche nel rapporto con le industrie europee dell’aerospazio, e rafforzare una logica proattiva di trasferimento tecnologico. In Europa vi sono poi progetti di cloud distribuito, anche avanzati da promettenti startup, come la bolognese Cubbit, e occorre verificare sul campo le promesse del progetto Gaia-X, la piattaforma europea sull’infrastruttura dei dati avviata su iniziativa franco-tedesca. Quest’ultimo è un ambito in cui sono ormai necessari investimenti astronomici. I giganti digitali proseguono inoltre la loro marcia nella logistica.
È urgente far emergere una strategia industriale e culturale, accompagnata dalla capacità di agire, in mezzo alle molteplici necessità della pandemia. Altrimenti gli europei continueranno a essere dipendenti e subordinati. Se la “sovranità tecnologica” sarà relegata ai discorsi dei leader, agli europei resterà solo la - relativa - libertà di schierarsi tra i giganti.
Alessandro Aresu è autore del libro “ Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”, pubblicato da La nave di Teseo