Quell'ironia brillante di Umberto Eco nelle sue Bustine di Minerva
Torna raccolto in un volume un decennio della mitica rubrica tenuta sul nostro giornale. Incisiva e divertita analisi di ciò che siamo stati. E previsione di quello che saremmo diventati
C'era questa cosa dell'occasionale. Umberto Eco lo ripeteva tutte le volte che era necessario. I saggi su linguistica, semiotica, filosofia da una parte, poi i romanzi, e infine gli scritti occasionali. Il volume che raccoglieva per la prima volta gli scritti occasionali si intitolava "Il costume di casa”: lo pubblicò Bompiani nel 1973 e raccoglieva articoli e interventi di un decennio. Poi vennero tutti gli altri. Si trattava degli interventi per i giornali. Dettati appunto da fatti occasionali, non da un metodo o da una progettualità. Eppure chiamarla occasionalità era solo un vezzo, un modo per separare le sue scritture, e oggi quegli scritti appaiono tutt’altro che occasionali.
Oggi quella occasionalità che non erano i suoi romanzi o saggi come "Lector in Fabula”, è un pezzo di storia italiana, una cronaca culturale, letteraria, politica che non ha avuto paragoni. Soprattutto dal marzo 1985, quando prese a pubblicare proprio su questo giornale "La Bustina di Minerva”, ogni settimana, sull’ultima pagina dell’Espresso, con il ritratto di Eco disegnato da Tullio Pericoli. Un appuntamento fisso, una storia che viene direttamente da "Il nome della rosa”.
Giorgio Bocca, che questo giornale invece lo apriva con il suo "Antitaliano” una volta mi raccontò di aver incontrato Eco su un treno per Bologna, era il 1978. Eco non era ancora un romanziere, era un famoso studioso, e scriveva sui giornali da tempo. Ma la sua avventura didattica, la sua cattedra a Bologna, iniziava proprio in quegli anni. Eco disse a Bocca: «Poi cosa farò? Continuerò a fare Umberto Eco, a scrivere i miei saggi, i miei articoli». Pareva preoccupato. Forse persino stanco di fare il pubblico intellettuale, in un mondo che già da allora aveva tutti i difetti che lui non sopportava: dogmatismi, schieramenti, intellettuali organici, settarismi, e quant’altro.
Proprio nell’ultima riga dell’introduzione al "Costume di casa” Eco scriveva una dedica, che non è una dedica, perché non campeggia, solitaria, su una pagina, ma sta lì, un po’ nascosta, piena di pudore, di quel pudore che per lui era discrezione e misura: «Visto che questi scritti sono tutti apparsi nel decennio in cui sono scomparsi i miei genitori, vorrei dedicare a loro questa raccolta, a guisa di non troppo rituale catasta funebre. La dedica sia dunque: "A mio padre, che mi ha insegnato a non crederci, e a mia madre che mi ha insegnato a dirlo”».
Il buon dio si nasconde nel particolare, diceva Aby Warburg. E con il buon Dio Eco aveva frequentazioni e polemiche frequenti. Persino il non credere gli aveva insegnato il buon Dio, che pare una contraddizione, ma per uno che aveva studiato San Tommaso, non la è affatto. E quella dedica spiegava tante cose. Anche la parte sulla madre: «Mi ha insegnato a dirlo». È importante, perché senza quella maestria nel saper dire, "La Bustina di Minerva 1990-2000”, il libro oggi pubblicato da La nave di Teseo (che non posso che leggere con nostalgia, ammirazione, e mi si consenta, anche affetto, sicuro che oggi Eco mi perdonerebbe questa espressione), non esisterebbe, come non sarebbe esistita La Bustina di Minerva.
In quel giorno del 1978 Eco dice a Bocca molto di più di quello che sembra: «Continuerò a fare Umberto Eco?». E voleva dire: continuerò a fare come tutti? Forse a ripetermi, forse mi verrà meno quella voglia di smontare i luoghi comuni che mi accompagna da sempre? Dubbi, parole dette in una giornata qualsiasi. Dette a un amico, Bocca, che aborriva le certezze, un bastian contrario, uno che si smarcava di continuo. Eppure, mentre diceva questo, Eco aveva riempito già i primi quaderni, con una calligrafia non sempre ordinata, iniziando a scrivere un romanzo che si fondava proprio sul dubbio, sul ridere delle inutili certezze, sulla filosofia di Aristotele, su quel medioevo che gli aveva insegnato tutto.
Avrebbe continuato a fare Umberto Eco, ma in un altro modo, dando voce a Guglielmo da Baskerville, e avrebbe avuto un successo planetario. E si sa, il successo porta idee, e un giornale come L’Espresso non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione. Perché non chiedergli una rubrica settimanale? Ironica, sottile, intelligente, capace di mescolare generi e saperi, quello che oggi si chiamerebbe l’alto e il basso? Capire il mondo dentro un dettaglio, commentare le cose mettendo mano a tutto il suo sapere? Una pagina che chiudeva il giornale, come un finale di partita di ogni settimana.
Umberto come la intitoliamo la rubrica? E lui cosa si inventa? Si accende una sigaretta, una delle tante, guarda quella bustina che tiene in mano: un oggetto di cartoncino, che si chiude come una bustina che all’interno ha venti fiammiferi allineati. Dentro la bustina il cartoncino è bianco, ci si può scrivere. E come un mago ha messo il mare in un cassetto, il mondo dentro una palla di vetro di quelle che si agitano. Ha raccontato per quasi 30 anni chi eravamo in un modo che oggi sarebbe impensabile, nessuno ne sarebbe più capace.
La raccolta che pubblica La nave di Teseo si riferisce al decennio 1990-2000. Gli anni certo più intensi. Fu Eco a metterle in ordine, in modo tematico e non cronologico. E i titoli delle sezioni del libro, sarebbero profetici se non fosse che Eco dei profeti ha sempre riso, e ha sempre dubitato. Non si tratta di profezie, non si tratta di indovinare il futuro, se questa frase può mai avere un senso, si tratta di vedere con una lente più potente. Così "Il lato oscuro della galassia”, sottotitolo: "Tra razzismo, guerra e politically correct”, sembra scritto per questi tempi di intolleranze, di ossessioni, e di incertezze.
Per non dire della seconda sezione: "Amate sponde”. E lo studio sui linguaggi e comportamenti, raggruppati nel titolo: "Sublime specchio di veraci detti”. Aveva visto meglio di tutti la dissoluzione dell’autorialità, analizzato il web, gli ipertesti, ragionando sul libro, che tutti allora davano per spacciato e che invece ha vinto tutte le guerre rispetto all’ebook. Oltre alle polemiche sui mezzi di informazione, sui vizi dei sondaggi, ad esempio, che oggi, decidono le scelte politiche con un marketing del voto che si fa sulla nostra pelle. E alla fine non mancano i giochi, il divertimento.
Perché chi lo ha conosciuto la sa bene: «Divertirsi sì, ma molto seriamente», diceva. I paradossi, i calembour, i giochi di parole erano la sua ginnastica quotidiana, praticata con i suoi amici. Mi ricordo una sera all’osteria da Vito, a Bologna, con Francesco Guccini: una somma di bravure in una città che lo aveva accolto, alma mater studiorum, nel senso vero del termine. Come si può, per citare il menestrello Guccini, ridurre «dieci anni in poche frasi»? Senza poi contare che una raccolta completa di tutte le bustine significherebbe un libro di circa 3.200 pagine. Forse le 3.200 pagine più importanti per leggere quello che siamo stati e quello che saremmo diventati. Basterebbero i suoi articoli a dirci di questo mondo tutto quello che ci serve. Ma sono certo che Eco mi segnerebbe in rosso queste righe. Niente profeti, niente indovini, niente intuizioni. Metodo, rigore, attenzione, e soprattutto ironia. E con l’ironia si finisce per tenere lontana ogni forma di moralismo, di dogmatismo, qualsiasi ideologia funesta e cupa.
Certo che si poteva essere seri e divertenti in un mondo di gente poco seria e mai divertente. E si poteva mettere sotto la lente d’ingrandimento i vizi dei giornali senza mai dare la sensazione di farlo come fosse una faccenda tra addetti ai lavori. Si poteva raccontare il rischio della globalizzazione, senza chiamarla con questo nome, e prima che la si percepisse. E ridere dei luoghi comuni per quanto era possibile.
Aveva una passione per i giornali, Eco. Scriveva migliaia di parole destinate alla carta stampata di cui sapeva leggere i difetti peggiori. Ma era una passione di un ragazzo nato e cresciuto nell’Italia della censura fascista e dell’agenzia Stefani. Che voleva dire: non dimentichiamoci che senza giornali liberi non c’è democrazia. Ma diceva questo senza le retoriche tronfie che subiamo oggi. Per raccontare un mondo tutto uguale, faceva questo esempio: «Un tempo, quando due signore della buona società si trovavano alla stessa festa con lo stesso modello firmato, e dello stesso colore, facevano una scena isterica. E gli autori di barzellette, o di commedie brillanti, giocavano su questo logoro luogo comune. Invece con i bambini accade il contrario: se il compagno di scuola ha la maglietta col dinosauretto, o l’agenda Smemoranda, la vogliono anche loro, proprio per non sfigurare. I giornali stanno assomigliando sempre più ai bambini. Lasciamo che i pargoli vengano a noi».
Siamo diventati tutti bambini, tutti a dire le stesse cose, a cercare lo stesso consenso, a sbandierare assai giustamente il diritto alla diversità, dimenticando però che la prima delle diversità è quella culturale. La Bustina è un universo di migliaia di stelle come queste, si tratta di riunirle, e disegnare carri e orse maggiori. Senza dirlo troppo, senza proclami, senza retoriche. Questo mondo di adulti bambini, soprattutto di classi dirigenti di bambini mai cresciuti, dovrebbe tenere con sé questo libro come un manuale, una "summa” che ci ricorda quanto non siamo riusciti a imparare in tutti questi anni.
E poi c’è un finale che mi colpisce. Nelle ultime pagine c’è una Bustina del 1995. Commenta, alcuni mesi dopo, perché non voleva «vincolarsi all’attualità», i risultati del Referendum dell’11 giugno. Un referendum abrogativo con 12 quesiti. Tra questi quello che voleva limitare lo strapotere televisivo di Berlusconi. Gli italiani votarono no. E Mediaset rimase quella che era. Ma Eco racconta che, mentre quasi tutte le reti televisive dibattevano e discutevano di quel risultato, si è distratto, ha cambiato canale, e si è ritrovato Arturo Benedetti Michelangeli in un vecchio filmato che eseguiva la "Ballata n.1” di Chopin. Eco si «commuove di fronte a tanta perfezione». E scrive: «Mi sono chiesto se, nella marea di volgarità che monta, non sia ogni tanto un atto "politico” anche asserire i diritti della Bellezza. Sapendo che, alla lunga, vincerà». Mai come oggi vorremmo dargli ragione. Alla lunga vincerà, c’è da sperarlo. Ma i diritti della Bellezza come atto politico è una cosa a cui dovremo credere sempre, lui che ci ha insegnato a "non credere” e diffidare delle verità, ed è qualcosa che dobbiamo a "imparare a dire”, soprattutto alle generazioni future.