Il mio nome è Pojana. E porto sul palco l’inconscio inquieto del Veneto di Luca Zaia
Gli schei, i capannoni, la Lega. Ma anche Padova e le sue trame, il padre partigiano. «Un territorio tra l’accumulo e la sconfitta». L’attore Andrea Pennacchi a ruota libera
Bisognerebbe partire dall’osteria L’Anfora, dietro Piazza delle Erbe, e girare per Padova, la città del Santo. Oppure prendere la macchina e percorrere il Veneto terrigno e viscerale, sentirne le cadenze, gli accenti, cogliere gli sguardi, per capire meglio Andrea Pennacchi.
Venezia no, la Laguna è un’altra faccenda: a lui interessano i veneti che stanno con i piedi per terra. Perché Andrea è il formidabile testimone di quel Veneto profondo, fatto non solo di capannoni, “terroni” e schèi, ma anche di “bravi tosi”, di gente seria. Pennacchi, di sinistra, non ha esitato a dare voce e corpo ai piccoli imprenditori leghisti, riottosi “paron”, conservatori di destra, quei padroni che dedicano la vita al lavoro. In teatro, certo, ma anche in tv, con l’ormai mitico “Pojana” feroce personaggio esploso in quell’incubatore felice che è Propaganda Live su La7.
«Il Veneto non sta benissimo: da un punto di vista economico, sta beccando la bastonata che aumenta la rabbia dei piccoli imprenditori», esordisce: «Una situazione terribile, dove si generano storie straordinarie e, chissà, anche cambiamenti positivi. Ma io sono solo un raccontastorie, coltivo speranze». Pennacchi è un sismografo sensibile delle tensioni del territorio, della gente, di chi sta al margine. Quando lo vidi in scena, al debutto, più di dieci anni fa, metteva assieme le sue passioni: arti marziali e teatro. Combatteva sul tatami e sul palco, tra rigore orientale e fantasia della Commedia dell’Arte. Innamorato della sua città e di colei che sarebbe diventata sua moglie, Pennacchi raccontava, già allora, le inquietudini politiche della sua regione: «Il nostro è un territorio contraddittorio, sospeso tra l’accumulo, il lavoro, la cura, e la frustrazione, il senso di sconfitta. Ci tengo a dire una cosa: sono contento che Pojana sia andato a Propaganda Live, è un bellissimo ambiente, dove può dire le cose che ha da dire. Proprio perché, fino adesso, chi non è veneto mescolava vecchia Lega, Liga veneta, nuova Lega. Invece ci sono differenze non da poco. Salvini ha tradito tutti coloro che avevano cominciato a dar vita alla Lega ancora prima di Bossi. C’è una forte conflittualità, ma sopita dall’arte del “supremo Pr”, Luca Zaia. Però, sotterraneo e diffuso, si sente lo scontento per la Lega di Salvini, per il tradimento delle idee da cui nascevano anche i famosi blindati fatti in casa».
Già: un episodio da ricordare, un “situazionismo futurista” che sconfinava pericolosamente nel golpe, i “carri armati” dei cosiddetti “Serenissimi” che arrivarono sino a Piazza San Marco nel 1997. «È una storia che mi sta a cuore e racconto sempre: i due Tanko furono una cosa folle, incredibile, e sono stati invece rimossi, dimenticati dai giovani», confessa Pennacchi.
Così come è stata rimossa la cerimonia, la rutilante Festa dei Popoli Padani, di Bossi a Venezia, con l’ampolla e tutto il resto… «Il Sacro Dio Po! Che detta così sembra sempre una bestemmia», ride Andrea, e aggiunge: «Qualche tempo fa ho notato una fiammata di rabbia social, perché Salvini, o la “Bestia” per lui, si è impossessato di un motto della Serenissima dedicato a San Marco. I veneti l’hanno presa malissimo. Ma il dibattito resta in Veneto e non esce mai: per il resto del Paese i veneti son tutti uguali!». Nel gioco tra passato, presente e futuro della Lega, un occhio alle regionali e uno alle politiche, spicca Luca Zaia, che ha preso il timone dal “doge” Galan, travolto dagli scandali.
«Io sono in trincea, non vedo i comandi. Vedo solo le cannonate che prendiamo. Zaia ha stravinto nella gestione della pandemia, ha un consenso “bulgaro”! È stato ed è abile: non si fa troppo prendere dal lato “destro” e sicuramente mai da quello sinistro. Un doppio carpiato e via! Da teatrante, non posso che ammirare l’abilità del giocoliere. Ad esempio, non ha mai detto nulla contro i partigiani».
Da sempre la lotta partigiana è al centro della riflessione di Pennacchi, anche per motivi familiari: così, in teatro come in tv, non esita a riaffermarne i valori. «Oggi più che mai, per due motivi. Intanto perché siamo circondati da un revisionismo urticante, che vuole ridurre le attività dei partigiani a brigantaggio, cancellando gli ideali che hanno portato alla morte tanti ragazzi e giovani, assimilandoli addirittura ai caduti della Repubblica Sociale. I morti vanno rispettati, ma delle motivazioni per cui sono morti si può parlare, no? Poi, mi sembra che non si voglia discutere di cose elementari. Il racconto che ho dedicato a mio padre partigiano ha come sottotitolo “Appunti sulla guerra civile”. Penso sia una guerra cominciata ben prima della Seconda Guerra Mondiale e non ancora terminata: una guerra intestina, degli italiani. Dobbiamo mollare i vecchi feticci, trovare una nuova comprensione, non procedere per negazione. E affrontare la melmosa marea nera in cui continua a presentarsi il fascismo».
Padova, allora, sembra emblematica: da un lato fucina del pensiero militante (e armato) della sinistra, dall’altro città nera, fitta di trame, e al tempo stesso cattolica, segnata dalla presenza del culto del Santo Antonio: «È una città civile, calma, anche più di “sinistra” di molte altre del Nordest, ma agitata da “robe” profonde. Insomma, l’ambiente ideale per trovare storie».
Le storie, ecco la parola-chiave per capire Pojana-Pennacchi: ha cominciato “saccheggiando” l’Iliade, e non si è più fermato. «Sono partito da lontano», scherza, ben sapendo però che Omero è ancora qui, seduto accanto, in osteria: «Ho scoperto che Omero non era per nulla distante, mi ha portato subito al centro dei problemi di tutti i miei racconti. La realtà vs l’epica, l’umanità contro la violenza, la tenerezza preziosa degli esseri umani. Poi, avendo la fortuna di lavorare anche nelle scuole, nei piccoli comuni, nelle biblioteche, ho capito quanto fosse fondamentale l’ascolto. Mi definisco un “antropologo da bar”: mi siedo, con un caffè o uno spritz, e ascolto gli altri, con che toni parlano. Sono storie, alcune epiche. Se avessi inventato certe vicende, mi avrebbero detto “stai esagerando”. Invece sono cronache quotidiane». E sempre con Omero ha cominciato a ragionare su un termine che gli è da sempre caro: “eroe”. A chiedere una definizione, risponde: «Chi si erge a fare cose straordinarie. Ma i nostri eroi durano poco, vivono la stessa parabola degli eroi tragici greci», aggiunge: «Come i medici: prima della pandemia venivano picchiati al pronto soccorso, messi in discussione da chiunque avesse letto qualcosa su Google. Poi sono stati mandati al “fronte”, come nella Grande Guerra, senza mezzi e dotazioni. E sono diventati “eroi”, addirittura “angeli”. Adesso nuovamente contestati perché tengono alta la guardia».
Dall’orso al cinghiale, altro animale-mito per Andrea. Sui suoi profili social ne canta spesso le ispide virtù: «I cinghiali vincono su tutto, non sono mica orsi. Vanno in spiaggia, attraversano le strade sulle strisce pedonali. Meravigliosi!».
E il cinghiale, per un amante di Shakespeare come lui, evoca subito il vessillo di Riccardo III, uno dei personaggi più cattivi del Bardo: «Shakespeare è sempre con me, ferocemente. Ho appena finito, con la giovane compagnia Teatro Bresci, un mio adattamento della “Bisbetica domata”: testo che oggi è davvero un campo minato. E sono felice di girare con “Enrico IV”. In fondo, anche William era un vecchio guitto, pure bravetto no?». Andrea si è avvicinato al teatro con modestia, quasi chiedendo permesso. E si avverte la gioia di chi è approdato in una terra rigogliosa dopo tanto viaggiare: con il suo sodale di sempre, il chitarrista Giorgio Gobbo, ha fatto lo “scavalcamontagne”, arrivando ovunque. Sembra quasi una scuola all’antica, la classica “gavetta”. «Se hai scelto questo lavoro, dai per scontato di far fatica. Non è solo passione, applausi e amore. Ricordo le matinée nelle scuole superiori, dove il pubblico, se sbagli, ti distrugge. E quando va bene, li vedi: arrivano con un’idea di teatro, generalmente “che palle”, e se ne vanno entusiasti. È una lezione che serve sempre, anche nei teatri “fighi”».Una tecnica che ha portato anche nelle fiction tv e al cinema. Sarà nell’attesa serie “Petra” basata sui romanzi di Alicia Giménez Bartlett (Sky Original, prodotta con Cattleya e Bartlebyfilm) con Paola Cortellesi, su Sky Cinema dal 14 settembre; nel film “Stagione di caccia”, tratto da una graphic novel, o ancora nel “Divin Codino”, il film dedicato a Roberto Baggio da Netflix. Pennacchi ha saputo collocarsi nella tradizione dei grandi “caratteristi” all’italiana: «Quando qualcuno mi paragona agli storici “caratteristi” mi vengono i brividi di gioia. Essere nella categoria che ha contribuito a fare grande la commedia italiana è un piacere. Ricordo i volti, i corpi, le manie, i tic, i gesti di tutti loro».
Andrea ha insegnato teatro anche in carcere e si dedica spesso alla pedagogia, ma a chiedergli se si considera un “maestro”, si schermisce: «I ragazzi hanno tanto da insegnarmi. Facciamo scambio: io porto quel che ho imparato in battaglia, sul palco, sul ring. E loro mi danno energie, visioni nuove. Cerco di essere utile: intraprendere la carriera d’attore è difficile, eppure tanti giovani vogliono farlo».
Resta un tema da affrontare: la tradizione. «Amo mangiare. Allora, per me, la tradizione è una dispensa. Ho fame, apro la dispensa e trovo Ruzante, il medioevo, Shakespeare, ma trovo anche Marco Paolini, Natalino Balasso, Mirko Artuso. Artisti “molto viventi”, che ascolto sempre».
E alla fine questo “guitto” d’un Pennacchi, a modo suo, fa politica con il teatro. Sorridendo, scherzando, pungendo, raccontando, bestemmiando. Dà vita a quella cosa antica, e mezza scomparsa, che era la polis. Non ha dubbi: «Nella Caporetto politica della sinistra raccontarci storie nuove può risvegliare l’immaginazione, ampliare gli orizzonti. Senza dimenticare che immaginazione, sogno e respiro epico sono buone per tutta la comunità, non solo per la sinistra». Il teatro, insomma, può mettere in campo la sua forza. «Vorrei fare un classico di Goldoni da portare nei grandi palcoscenici, solo con italiani di seconda generazione: figli di immigrati che parlano dialetto meglio di me, per riaffermare che è questa la nostra tradizione, è la cultura che va avanti e vive già nel futuro». Un teatro di sinistra? «Beh, se poi uno de destra vol venir a vedere, mi so’ contento! Ghe vegna!».