Siamo abituati a pensare alla vita in modo lineare, con la vecchiaia come ultima tappa. Contrordine. Perché la stagione del rischio e del “tocco umano” rimescola passato e futuro

Dio sa quanto sarebbe opportuno elogiare la vecchiaia (e il papa l’ha appena ricordato), ma non è facile in tempi come quelli che stiamo vivendo, tempi davvero bui per gli anziani. Non sappiamo dove metterli.

 

Le “case di riposo”? Le stiamo tenendo sotto osservazione anche per via dei focolai e di alcuni episodi inquietanti, preferiremmo comunque girare lo sguardo da un’altra parte e non vedere quei vecchi riuniti così in attesa della fine. Meglio, in mancanza di alternative, lasciarli nelle loro abitazioni? Dipende dalle situazioni, perché spesso così li si condanna a un’incresciosa solitudine, anche quando possono permettersi una badante, e anche se intorno a loro restasse sempre qualche cordone affettivo.

 

La vecchiaia, nella società attuale, è diventata un peso da sopportare. Una volta rappresentava una riserva di saggezza, oggi appare un’isola opprimente di inoperosità che cresce giorno dopo giorno. È difficile descrivere con lucidità che cosa passa nelle nostre teste, perfino nelle più sensibili, quando apprendiamo la percentuale di anziani attraverso il bollettino quotidiano dei decessi da pandemia. Un disagio imbarazzato? La constatazione di un processo inevitabile? Un groviglio tra questi due poli emotivi?

 

Forse è meglio non spingere troppo in là una simile indagine, sappiamo già dove si arriva. L’atteggiamento che prevale è di solito difensivo. Difendiamo cautamente la vecchiaia, magari cercando di onorarla almeno un poco, ma soprattutto ci difendiamo dalla prospettiva di doverne far parte, prima o dopo. Guardalo - ci diciamo - ha superato ottant’anni e sembra un ragazzino, al massimo gliene daresti sessanta. Sessanta? Ma non era questa l’età con cui una volta si veniva considerati anziani? Sei rimasto indietro - obiettano - oggi a sessant’anni si è ancora giovani dentro, e magari anche nell’aspetto esteriore. Si può rimanere giovani, se si ha la forza e la decisione di farlo.

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Il nonno ora si fa una canna: è boom di marijuana tra gli anziani
15/1/2020

Riflettiamo un momento su questo diffuso “ritornello”, lasciando da parte le considerazioni sulle opportunità e sulle disuguaglianze sociali. Lo definiamo ritornello non perché sia una futile canzonetta ma per il fatto ampiamente riscontrabile che esso si ripete e ogni volta ritorna. Quanti sono quelli che all’indomani della conclusione della loro carriera lavorativa entrano sorridendo negli anni del pensionamento? Pochi riescono a evitare il contraccolpo depressivo che segue alla presa di coscienza che è avvenuto un cambiamento di casella.

 

Comunque si riesca a cambiare la propria vita quotidiana, magari introducendovi riposo e libertà di organizzare il tempo ora disponibile, l’ombra della vecchiaia entra nelle menti e anche nelle ossa, e ci resta in un modo che sembra incancellabile. La vecchiaia può invece venire apprezzata come una pagina nuova e rilevante della nostra vita, a condizione di sbarazzarci di questo atteggiamento di difesa. Se ci riuscissimo, se solo cominciassimo a provarci, scopriremmo che il cosiddetto “tramonto” è anche la possibilità di un ricominciamento, cioè di iniziare a vedere la vita intera con occhi diversi.

 

Questa potenzialità non corrisponde a quella perduta saggezza che veniva attribuita ai vecchi: essi non insegnano più ai giovani che si può stare fermi sulla sponda del fiume per osservare l’acqua che vi scorre, ma è innanzi tutto la scoperta dell’importanza di un passaggio che ci faccia comprendere come bisognerebbe vivere contrapponendosi al mito dominante della pienezza.

 

Potremmo chiamarla la chance di riuscire ad “abitare la distanza”, un’“arte” - se vogliamo dire così - che ci permettesse di arginare l’ossessione di quella giovinezza eterna che si alimenterebbe solo con un’operosità rivolta al successo individuale. L’aveva già intravista Simone de Beauvoir nel saggio “La terza età”, ora ce la racconta lo psicoanalista Francesco Stoppa in “Le età del desiderio” (Feltrinelli), facendo rimbalzare l’una sull’altra l’adolescenza e la vecchiaia come età della “crisi”, quelle in cui ciascuno di noi si trova di fronte all’opportunità di “rinegoziare” il proprio rapporto con la vita e con l’identità personale.

 

Come aspetti essenziali di un’“arte del tramontare”, rispetto alla quale sembriamo oggi completamente analfabeti, emergono l’esperienza che possiamo fare del “tempo” e l’esperienza connessa di un vissuto del “desiderio” molto lontano dall’idea ovvia di desiderio che tutti abbiamo in testa e che molta cultura contemporanea (dalla filosofia alla psicoanalisi) ha abbondantemente diffuso.

 

Dunque, l’elogio della vecchiaia avrebbe soprattutto a che fare con la scomposizione della sequenza che ci porta progressivamente da un inizio a una fine, dalla nascita alla morte, come se tra passato, presente e futuro si potesse tracciare una linea di continuità senza inciampi e priva di faglie. No, le cose non starebbero così, non solo perché il percorso è caratterizzato da salti e queste rotture modificano continuamente questa presunta linearità. La vecchiaia potrebbe allora farci capire che il passato e il futuro sono sempre connessi tra loro in un intrico che si rivela decisivo per la nostra idea di vita.

 

Il vecchio conosce bene quale sia l’importanza del rischio come elemento essenziale della vita stessa, e allora può insegnarci a spezzare l’incanto di una linea temporale che legittima il nostro andare avanti ottuso e quasi sempre disastroso. Può farlo perché riesce a far rimbalzare la fine sull’inizio e trasmetterci - se lo ascoltassimo - la “formula magica” di questo rimbalzo.

 

Formula magica? Ma non così ovvia come quella che avvolge il nostro cieco procedere in avanti, che abbiamo adottato con evidente inconsapevolezza, per esempio senza accorgerci che è una specie di incantesimo illusorio. Ma non è proprio quella che avvolge il nostro cieco procedere in avanti: una formula che abbiamo adottato con evidente inconsapevolezza, per esempio senza accorgerci che è una specie di incantesimo illusorio?

 

Ancora più sorprendente sarebbe riconoscere che la vecchiaia non solo non è l’estinzione del desiderio, ma, tutto al contrario, ci fa scoprire il suo vero funzionamento. Normalmente ci comportiamo come se il desiderio fosse la mancanza di qualcosa e la relativa pulsione per entrarne in possesso. Ma non è così semplice, come la psicoanalisi più avvertita ci segnala.

 

L’esperienza che proviene dalla vecchiaia può spiegarci che il desiderio non si soddisfa attraverso un oggetto perché si produce grazie a una sorta di continuo smottamento della soggettività. Insomma, il tentativo dell’anziano di rinegoziare il proprio rapporto con la vita metterebbe in luce il tratto lacunoso dell’essere umano, e quindi la necessità di “abitare” quella distanza che lo costituisce.

 

Se volessimo dare un nome a questa caratteristica essenziale, che la vecchiaia - nonostante le sue tribolazioni e in parte grazie a esse - ci aiuta a identificare, potremmo battezzarlo (come propone Stoppa) il “tocco umano”, cioè il gesto che ci appartiene più da vicino grazie alla nostra capacità di affrontare la lontananza, compresa la fine della vita.