Intervista
Ivan Canu e la forza della cultura visiva
Illustratore, divulgatore, presenza fissa del nostro giornale, torna in libreria con “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti” scritto da Mieli e Cundari. «Nessuno inventa più nulla, ma cerco il modo per togliere la patina del tempo da stilemi quasi dimenticati». Colloquio con il disegnatore che ha fatto del suo bagaglio culturale per immagini un tratto distintivo
Ivan Canu è molte cose. Direttore artistico, illustratore, divulgatore, responsabile di una delle scuole più importanti di illustrazione, è anche colui che da quando L’Espresso è stato ridisegnato - nel 2018 - ha abbracciato in toto il nuovo progetto editoriale e grafico supportandolo con le sue immagini, cariche di energia e cultura visiva.
I suoi colori, le sue linee morbide ma decise hanno di volta in volta delineato i contorni di un politico, di uno scrittore ma anche raccontato fatti storici o tendenze culturali. Insomma Canu è un illustratore versatile. La fortuna di ogni Art director, per intenderci.
In questi giorni è uscito il libro “L’Italia della Liberazione in 50 ritratti” scritto da Paolo Mieli e Francesco Cundari e illustrato - manco a dirlo - proprio da Ivan Canu. L’editore è Centauria che, dopo il successo della Storia del Comunismo in 50 ritratti e dell’Italia di Mussolini in 50 ritratti (la squadra degli autori era la stessa), ha pensato bene di proseguire questa rivisitazione storica e grafica del nostro Paese. Per me che guardo le figure per deformazione professionale non ci sono dubbi: il valore aggiunto di questi libri sono i ritratti dei protagonisti che Ivan Canu reinterpreta a cavallo tra l’ironico e il visionario. Possiamo quindi ammirare Italo Calvino in stile surrealista, Gina Lollobrigida in versione Paper doll, Pietro Nenni/Charlie Brown a capo dei Psinuts o Sandro Pertini sulla copertina del giornale satirico Il Male. Ogni illustrazione è un mondo a sé, un gioco di rimandi in cui è impossibile non partecipare e cercare le molte citazioni più o meno nascoste.
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Come è nato questo modo di approcciarsi alla Storia d’Italia?
Alla fine del 2017 mi ha contattato Balthazar Pagani, che conosceva i miei ritratti per Il Sole 24 ore, e mi ha proposto di illustrare un libro scritto da Paolo Mieli per il nuovo editore Centauria, sulla storia del comunismo. Cinquanta ritratti di personaggi internazionali, di partito ma anche intellettuali, attivisti, scrittori, personaggi dello spettacolo e dell’arte. Avevo 2 mesi di tempo, quindi ho dovuto ottimizzare ogni risorsa. L’inizio è sempre di ricerca e di studio, del contesto storico, culturale, sociale che i personaggi hanno vissuto. Leggo le biografie e mi immergo nei riferimenti che me li rendono interessanti. Studio gli abiti, le pose del corpo, l’energia fisica che si ripercuote nell’ambiente o nello spazio della tavola. Inoltre lavoro su piani temporali paralleli, giocando sugli anacronismi e i paradossi. Non avendo mai i soggetti davanti a me, uso le fotografie. Ne raccolgo molte, alcune decine per ogni personaggio, in diverse età, contesti, ambienti. Che un ritratto sia somigliante, è secondario e mi interessa relativamente. Quel che mi piace, è smontare le foto e rimontarle, per avere una fisionomia che appartenga idealmente a quel personaggio ma non sia mai stata rappresentata prima. In ogni mio libro, i personaggi richiamano qualcos’altro, anche di molto lontano da loro. Per rifarmi agli esempi che mi citavi dall’ultimo libro “L’Italia della liberazione in 50 ritratti”, per Italo Calvino ho pensato a Moebius e al suo stile grafico così peculiare, che ha ispirato artisti come Pazienza, Otomo e Myazaki. E mi è piaciuto vederlo giovane, com’era negli anni del dopoguerra, sospeso per aria con gli oggetti del suo lavoro, una lampada mutante e, sullo sfondo, lo struzzo Einaudi che scappa. Lo faccio con lo spirito pop di alleggerire il tono, col gusto di una battuta spiazzante. Per questo non trovo irriverente aver disegnato Pietro Nenni come Charlie Brown: era un produttore di aforismi spettacolari, tuttora in uso nel linguaggio politico e giornalistico e ne ho un ricordo da bambino, alle vecchie tribune elettorali in bianco e nero, con la sua testa dai radi capelli sempre spettinati in cima. Era un’associazione spontanea. A volte lo so di compiacermi della citazione: la ruota di Duchamp per Bartali, le avanguardie Bauhaus per Basso, i versi che Montale dedicò in lode a Croce. A volte è proprio il divertimento grafico: la Lollobrigida come bambola da ritagliare e vestire (provateci, credo sia fattibile) è in ricordo dei giochi da ritagliare sui giornali della mia infanzia. De Sica ritratto alla Guttuso, in un momento di totale riposo domenicale, mi viene dall’episodio che il figlio Christian racconta a volte, della fatica che il padre faceva a tenere in piedi due famiglie, passando le feste comandate in entrambe le case. Doveva essere faticosissimo. In ogni libro che finora ho fatto con Mieli, c’è sempre una tavola ispirata alla settimana enigmistica, dove invito il lettore a far qualcosa di pratico senza che sia io a suggerire troppo. Unire i puntini per trovare la fisionomia oppure colorare gli spazi. Ecco, è un divertimento che condivido ed è, per me, il vero gusto di un libro illustrato: non è mai del tutto solo dei suoi autori.
Che differenza c’è tra essere autore dei propri libri e illustratore per giornali?
C’è una distanza di scopo, più che di mezzi o di metodo. La finalità del fare un libro di cui si è in parte o del tutto autori è di raccontare una storia lunga, di far stare comodi i lettori, intrattenerli, incuriosirli. Mi piace illustrare libri di storia o riferiti a personaggi e periodi della cultura, dell’arte, dello spettacolo, mi immergo in un terreno fertile e mi fa divertire. Se non vengo controllato, a volte il gusto del patchwork mi prende la mano, finisco per somigliare a quello che ride della propria battuta prima che finisca di raccontarla, tanto si piace sagace. Ed è qui che mi viene in aiuto il lavoro editoriale: su un quotidiano o una rivista, non sono mai da solo. C’è innanzitutto il committente diretto, l’editor o l’art director con cui scambio idee, ragiono sulle scadenze, sul budget, a volte semplicemente inviando le bozze, poi decidendo il finale e facendo l’esecutivo. Ci son più o meno richieste, modifiche, aggiustamenti, varianti. Di norma, la committenza editoriale ha il suo pregio nel suo limite: il budget e la tempistica determinano le modalità di lavoro. Poi a volte si aggiunge una gerarchia stratificata: oltre al parere dell’editor e dell’art, si tiene conto di quello di un direttore editoriale, di un caporedattore o del direttore responsabile. Figure con cui di solito non ci si rapporta direttamente, ma che vengono evocate con un ricorrente: “chiedo al direttore e poi ti faccio sapere”. Prassi che può voler dire allungare un po’ i tempi, le attese ma anche modificare drasticamente la direzione presa, fino all’approvazione o all’annullamento del lavoro stesso. Questo con un libro non accade, perché prima di iniziarlo, c’è una relazione che si instaura o si continua, un contratto che si discute, una linea che si ragiona con le persone che poi seguiranno il libro in varie tappe. Per un giornale lavoro con più rapidità, sintesi, alla ricerca del miglior bilanciamento fra medium e messaggio. In questo, un buon rapporto di intesa con l’editor o l’art aiutano molto, perché il confronto delle idee e i suggerimenti o i cambi di direzione sono quasi sempre migliorativi, rispetto alle prime bozze. Su un libro può capitare meno di frequente, anche se io spesso mi confronto con amici e colleghi di cui stimo le opinioni e in fase di progetto raccolgo ogni opinione che mi sposti un po’ dalle mie convinzioni di partenza.
Andiamo nello specifico dell’Espresso. Com’è il tuo rapporto con questa testata?
Con L’Espresso c’è un rapporto piuttosto privilegiato e unico nel suo genere. Con te ci conosciamo da diversi anni, abbiamo amici comuni nel panorama dell’illustrazione (ci ha presentati Emiliano Ponzi) e abbiamo iniziato a collaborare alcuni anni prima a Repubblica con Angelo Rinaldi. Sono nati prima la stima e la simpatia reciproca, l’aggiornarsi sui progetti in divenire e avere molti argomenti comuni. Ho aderito con entusiasmo al nuovo progetto dell’Espresso, perché potevo realizzare uno dei sogni di ogni illustratore, essere una firma di riferimento di un periodico prestigioso, andando oltre l’abituale lavoro del “fornitore”. Nei primi tempi per il “rodaggio" abbiamo provato varie collocazioni, dal primo sfoglio di attualità e politica, agli argomenti spinosi, a quelli di maggior respiro (cultura, di solito), alle copertine (il lavoro più complesso). Ora funziona un po’ così: se c’è il pezzo delle Idee, siamo più rilassati e abbiamo tempo per parlarne, magari pure leggerlo e già abbozzare qualcosa. Io dal sabato passo quello che un caro amico illustratore, Libero Gozzini, chiama “il weekend degli illustratori”: ovvero, si lavora senza il telefono e le email sempre attivi. Concentrati e propositivi. Infatti, di solito entro la domenica sera vengono fuori le idee migliori. Se invece c’è di mezzo la copertina, il discorso è diverso. In quel caso, si discute del tema proposto dalla riunione di redazione e dal direttore, che è la parte destinata a subire più facilmente la legge di gravità. Ovvero, cadere. Qui è la lunga pratica (di entrambi) ad aiutarci, dando una piena disponibilità su un tempo molto ridotto e a volte sul filo dell’emergenza. Così sono nate alcune copertine ben riuscite, quelle sulla pandemia del 2020 o l’ultima su Draghi presidente del consiglio, che ha avuto una gestazione record di 6 ore, dalle 14.30 alle 20.30 del mercoledì in cui L'Espresso va in chiusura.
Facciamo un passo indietro. Ci racconti il tuo percorso artistico e professionale?
Provengo da studi umanistici e universitari, ho lavorato per alcuni anni nella redazione della rivista di spettacolo Hystrio, seguendo il percorso tipico, dal curriculum presentato al direttore Ugo Ronfani (che mi scelse perché cercava un illustratore versatile per le rubriche) al doppio ruolo di grafico art director e di critico e saggista. Ho sempre avuto poi una natura curiosa, onnivora che mi porta ad essere una spugna. Ma non ho avuto l’idea di fare del disegno una professione, prima degli ultimi anni universitari. Disegnavo sempre personaggi per storie scritte da me, fumetti pretenziosi su divinità classiche (una specie di American Gods ante-litteram, una Medea). Un incontro estivo, fra la consegna della tesi e la laurea, con Bruno Enna (gran sceneggiatore di fumetti, anche lui sardo) mi convinse che Milano era la mia destinazione, che potevo seguire corsi serali e frequentare illustratori professionisti, vivendo in un ambiente molto fertile. La conferma l’ho avuta lavorando con Ferenc Pintér nei suoi ultimi 10 anni di vita, commissionandogli alcune copertine di Hystrio e soprattutto trascorrendo ore nel suo studio a conversare di ogni cosa, film, teatro, religione, politica, storia e anche illustrazione. Lo considero il mio maestro, soprattutto di metodo e di gusto. Da lui ho mutuato l’idea della professione come soluzione di problemi, visuali, di comunicazione. Queste soluzioni devono essere il più possibile differenti dal solito. È questa peculiarità, questo essere “diversi da”, che ci rende interessanti.
L’illustrazione è una delle mie grandi passioni. Mi sembra che da qualche anno in Italia quest’arte applicata stia vivendo un momento di grande splendore. Tu cosa pensi a riguardo considerando che sei anche Direttore del Mimaster, scuola che ha come scopo proprio quello di formare gli illustratori del futuro?
Ho mosso i primi passi in questo mondo a metà anni ’90 in maniera non molto diversa dai colleghi di 20 anni più grandi di me, con la differenza che il mercato di quegli anni era depresso, la pubblicità quasi scomparsa, l’editoria ancora in disordine e con tanto potenziale inespresso. Ho fatto la mia palestra nell’editoria scolastica, imparando di tutto e, alcuni anni dopo, lavorando nella moda, che è l’ambiente più competitivo e stressante per un creativo che stia dietro le quinte. Solo da una quindicina d’anni mi sono dedicato di più all’editoriale, poi ai libri. Al Mimaster Illustrazione, la scuola che da 12 anni dirigo insieme a Giacomo Benelli a Milano, raccontiamo molto del mestiere, di com’è fatto, di quel che comporta essere illustratori nel divenire del mercato internazionale. È un buon tempo, questo, per cercarsi una strada nell’illustrazione. Perché come succede sempre nelle epoche, tutto torna prima o poi di moda. E così è stato per l’illustrazione negli ultimi 15 anni. La globalizzazione ha aperto anche mercati nuovi, come quelli asiatici principali (dopo il Giappone, la Corea e la Cina soprattutto) e altri in cerca di un rinnovamento (come quello russo). Questo richiede molto studio, in campi differenti, tanta applicazione, per alcuni anche una rinnovata dedizione alle tecniche, perché il digitale è talmente evoluto, che essere originali oggi può voler dire anche fare un ottimo acquarello e saperlo declinare e misurare con Photoshop per il massimo controllo in stampa. È un mestiere che si proietta fuori di noi perché richiede comprensione. Trattandosi di professione, bisogna studiarne le regole: ci sono clienti, mediatori, committenze, collaboratori, materiali, spese, note, tasse. Ci sono associazioni di categoria che forniscono informazioni e spesso son ben liete di darle anche gratuitamente, così come ci sono libri, manuali, guide che raccontano agilmente come addentrarsi nel mestiere. Come Mimaster ne abbiamo scritta una, The Illustrators Survival Guide, edita da Corraini, che da alcuni anni è apprezzata per l’efficacia con cui racconta il mestiere anche con leggerezza. Sul tema dello stile, della riconoscibilità, si spendono molte parole e molte energie, perché il distinguersi è un’ossessione adolescenziale, quasi una malattia esantematica delle professioni creative. Ha un senso, lo riconosco: a nessuno interessa stare nel mucchio, fare l’impiegato della matita. Ma la distinzione ricavata dalla scorciatoia della copia seriale di immagini, stili, personalità che vanno “di moda” ha il fiato cortissimo. Siamo tutti all’interno dei diversi social, con siti e gallery online, dentro annual internazionali. Abbiamo profili Instagram sempre attivi e vediamo tutto di tutti. E spesso vediamo cloni di Olimpia Zagnoli, Emiliano Ponzi, Lorenzo Mattotti, Malika Favre, Beatrice Alemagna. Come nel linguaggio, conoscere 100 parole equivale a esprimersi poco, a essere ripetitivi e a non raggiungere sempre la chiarezza. Oltre a non essere in grado di capire tutto quel che ci circonda e i contenuti che ci propone. Ed ecco che con 100 parole, si ricorre a stereotipi e cliché. Così è per le immagini: se il mio bagaglio culturale ne comprende poche, la mia comunicazione come illustratore è limitata, regge male il passare del tempo. Più immagini possiedo, più potente è l’immaginazione che genero e la capacità di comunicare in luoghi, modi e tempi diversi. Nessuno inventa più nulla, ma di modi per togliere la patina del tempo da stilemi invecchiati e quasi dimenticati ce ne sono di eccellenti e questo andiamo a cercare. Come Quentin Crisp diceva: la moda è quel che segui quando non sai chi sei. Mentre seguirei la geniale direttrice di Vogue Diana Vreeland nel suggerire: noi non diamo quello che il pubblico vuole, ma quello che ancora non sa di volere.