Un anno fa l'omicidio di George Floyd dava vita a un'ondata inarrestabile di proteste e alla rivoluzione del movimento internazionale antirazzista. Merito anche della forza delle immagini, capaci di scuotere l'opinione pubblica, ribaltare verdetti, influire sul corso degli eventi

Il 20 aprile 2021 diciotto milioni di utenti sono sintonizzati sui canali d'informazione in attesa del verdetto con cui si chiude il processo contro Derek Chauvin. L'agente che il 25 maggio 2020 teneva premuto il ginocchio sul collo di George Floyd, è giudicato colpevole di tutti i tre capi d'imputazione. È la prima volta che una giuria del Minnesota condanna per omicidio un poliziotto bianco e, in assoluto, una delle poche in cui la giustizia statunitense non lascia impunito l'abuso della violenza poliziesca contro degli afroamericani. Poco dopo il pronunciamento si fa largo un nome cui vanno tributate parole di ringraziamento: Darnella Frazier.

È la diciassettenne nera che ha filmato il soffocamento di George Floyd, le implorazioni pronunciate nel terrore di morire («I can't breathe», «mama, mama»), i vani tentativi degli altri testimoni di salvarlo dalla pressione letale sul corpo ormai incosciente. Quel video diventato virale ha innescato l'ondata di proteste che negli Usa non erano mai state così diffuse e partecipate anche dai bianchi, né erano mai dilagate globalmente. Prima di mettersi a filmare, Darnella Frazier ha accompagnato nel minimarket una cugina di nove anni nel tentativo di impedirle di assistere alla scena. Poi ha tenuto la videocamera su George Floyd - zoomando, aggirando l'ostacolo del poliziotto piazzato davanti a Chauvin - per oltre dieci minuti ininterrotti.

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Darnella Frazier non è stata l'unica del "bouquet di umanità", come il procuratore generale Keith Ellison ha chiamato i passanti diventati testimoni dell'accusa, a estrarre il cellulare. Ma è unico il valore del suo video. Quel filmato integrale ha subito smentito il comunicato ufficiale dalla polizia di Minneapolis. E se all'epoca abbiamo visto tutti almeno un'immagine ricavata da quel video, il suo schiacciante peso di prova ha resistito anche in tribunale.

C'è stato un altro video fatto con il cellulare a cui è toccato un ruolo importante per la crescita di Black Lives Matter. Nel 2014, quando a New York viene arrestato Eric Gardner e un poliziotto esercita su di lui una proibita manovra di strangolamento, un amico della vittima filma la scena. «I can't breathe» grida Gardner, come farà George Floyd sei anni dopo. Quel grido capace di farsi metafora del razzismo strutturale che toglie il respiro, diventa lo slogan di Black Lives Matter. Ma dal punto di vista giudiziario non serve a niente. Le grand jury decisero di non mandare a processo gli agenti che nel 2014 tolsero la vita a Eric Gardner e a Michael Brown, mentre nel 2013 finiva assolto il poliziotto che aveva sparato al diciassettenne Travyon Martin. L'hashtag #BlackLivesMatter è nato in seguito a quell'omicidio. Il movimento si è dunque allargato sia perché non sono mai cessate le uccisioni degli afroamericani - la sedicenne M'Khia Bryant è morta poche ore prima della sentenza Chauvin, il disarmato Andrew Brown il giorno dopo - sia per l'impunità con cui continuano a accadere.

 

Ramsey Orta, l'autore del filmato che mostra lo strangolamento di Eric Gardner, è stato insistentemente preso di mira dalla polizia newyorchese fino a scontare una condanna per detenzione di droga e armi, uscendo dal carcere solo grazie a un crowdfunding che ha raccolto 200mila dollari di cauzione. Comunque il suo video, insieme ad altri ripresi per denunciare abusi e razzismo, si sono rivelati l'unica arma legale in mano a chi li subisce. Hanno impedito che passassero delle versioni false, mobilitato l'opinione pubblica, portato sempre più gente nelle strade. E sebbene fino alla sentenza Chauvin non avessero spianato la strada alla giustizia, hanno contribuito a ottenere sospensione o licenziamento degli agenti e, talvolta, persino un risarcimento.


Anche quel che ha fatto la ragazza di Minneapolis è stato quindi una prova di sangue freddo e di coraggio enormi nell'esporsi sui social media, prima di diventare la miccia di una mobilitazione che ha fatto storia. Eppure, parlando in aula, Darnella Frazier ha detto piangendo di sentirsi in colpa perché non è intervenuta per fermare i poliziotti.
In quel vissuto sembrano convivere vari livelli di trauma: quello dell'impotenza del testimone, quello di chi nella vittima vede per giunta un padre o un fratello e, infine, quello di chi a contatto con la violenza non fa altro che documentarla. Esperienza che fino all'arrivo degli smartphone era riservata ai fotografi e operatori professionisti a cui nelle vicende di Black Lives Matter è toccato un ruolo complementare. Le immagini prodotte sono talmente numerose che è difficile individuare le più memorabili.

 

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Nel 2015 il Pulitzer ha assegnato il premio per la fotografia alla squadra del St. Louis Post-Dispatch per la copertura delle proteste dopo la morte di Michael Brown a Ferguson; nel 2017 ha nominato uno scatto di Jonathan Bachmann che cattura la solitaria e impassibile figura dell'attivista Ieshia Evans mentre si fa arrestare da una carica di agenti antisommossa a Baton Rouge, dove il 5 luglio 2016 la polizia ha ucciso Alton Sterling, padre di cinque figli. Per le proteste scatenate dall'omicidio di George Floyd le cose sono ancora più complicate. Il 6 luglio 2020 il New York Times pubblicava una mappa delle manifestazioni negli Usa, stimando che vi avessero partecipato da 15 a 26 milioni di persone. Un numero senza precedenti a cui va aggiunta la marea di dimostranti nel resto del mondo. George Floyd, come lo abbiamo visto nella sua foto migliore, ne è il volto unificatore: disegnato sui cartelli, stampato sulle T-shirt, dipinto come murales, persino tra le macerie della siriana Idlib, sull'unico muro mezzo in piedi.

Un'interpretazione particolarmente significativa della nuova icona planetaria l'ha realizzata Kadir Nelson come copertina del New Yorker nel giugno 2020. L'artista afroamericano ha riempito il busto di George Floyd dei ritratti di coloro che lo hanno preceduto. L'opera si intitola "Say Their Names", altro motto di Black Lives Matter, ma i nomi delle persone raffigurate non sono solo quelli più scanditi dal movimento. Risalgono indietro, da Rodney King a Martin Luther King e Malcolm X, ricordano Rosa Parks e il quattordicenne Emmett Till linciato nel 1955, fino a commemorare gli schiavi senza nome alla base del dipinto. Nel corpo di George Floyd è visivamente iscritta l'intera storia di violenza subita e di lotta degli afroamericani.

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Molte immagini che hanno trasmesso quella storia sono state scattate da autori bianchi. La povertà estrema dei neri nel sud della Grande Depressione ripresa dalla fotografia sociale di Dorothea Lange e Walker Evans, una fontanella segregata nella North Carolina catturata nel 1950 da Elliot Erwitt, Robert Frank che durante il viaggio del 1955 da cui nascerà "Gli Americani" (Contrasto) fotografa sia autobus segregati che coppie miste. Ma già a partire dagli anni Venti gli afroamericani James Van Der Zee e Roy DeCarava documentavano la "Harlem Renaissance", il fermento culturale e politico del loro quartiere di Manhattan.

 

E se nel corso del movimento per i diritti civili alcune foto celebri sono di autori ignoti - una su tutte: quella delle Olimpiadi del '68 che mostra Tommie Smith e John Carlos alzare il pugno nel saluto dei Black Panthers - sono attivi anche dei fotografi neri. Ernest Withers che da Memphis segue Martin Luther King, Don Hogan Charles e Moneta Sleet Jr., entrambi collaboratori della rivista Ebony, e sopratutto Gordon Parks che è stato anche musicista, regista e scrittore. Parks ha realizzato scatti iconici di Muhammed Ali e Malcolm X, grandi reportage sulla vita quotidiana dei neri, e persino foto di moda. E in Italia, dove l'ondata di Black Lives Matter ha riempito le piazze delle maggiori città per la prima volta dall'arrivo del Covid-19? Dai noi è stata parecchio commentata la presenza di Fedez e Ferragni: una foto con il cartello "Fuck racism" postata da quest'ultima su Instagram è stata interpretata come il simbolo di un'effimera tendenza d'importazione.

In realtà a Roma c'erano pure i Måneskin e a Milano Mahmood e Ghali, immortalati da chi li ha riconosciuti dietro le mascherine. Gran parte dei cartelli replicavano gli slogan americani, ma se ne vedevano altri tesi a ammonire "L'Italia non è innocente", "Anche in fondo al mare non si respira" o a declinare il #SayTheirNames con i nomi di Soumaila Sacko, Idy Diene, Samb Modou, Diop Mor, e Emanuel Chidi Namdi, vittime del razzismo in Italia. Il tratto più dirompente è stato il protagonismo di tanti africani, afroitaliani e altri giovani di origine straniera. Una delle foto più emblematiche coglie dei manifestanti sul tetto di un ingresso della metro milanese. A sinistra mani bianche maschili nascondono il volto dietro un cartello con una frase della scrittrice italo-somala Igiaba Scego contro il mito autoassolutorio degli "Italiani brava gente". Poco più in là un ragazzo nero, una ragazza nera e una bianca alzano il pugno nel cielo minaccioso di pioggia, come rivendicando di essere il futuro di questo Paese.