Radicalismi religiosi
Deborah Feldman: «Nelle società islamiche o ortodosse la donna è sentita come una minaccia»
La fuga da New York a Berlino. La felicità trovata in Europa. La scrittura come liberazione dal dogmatismo dei falsi profeti. E un nuovo romanzo in arrivo. Incontro con l’autrice del bestseller (e serie tv) “Unorthodox”, ambientato nella comunità di ebrei ultraortodossi Satmar
Un’infanzia infelice la sua. I genitori separati. Il padre con gravi problemi di alcol. E lei, la piccola Deborah cresciuta a casa dei nonni, superstiti dell’Olocausto. Nel quartiere di Williamsburg, il fortino inespugnabile a New York dei Satmar, la comunità ebraica ultraortodossa del rabbino ungherese Joel Teitelbaum. A 17 anni Deborah - che cresce parlando solo lo yiddish - sposa Eli, dopo averlo visto un paio di volte. Ma il matrimonio arrangiato, dopo tre anni di sofferenze fisiche e mentali, va in pezzi. E alla fine Deborah molla tutto: marito, famiglia e New York, voltando le spalle ai Satmar e ai dogmi di una religione asfissiante. Per rifugiarsi dal 2014 a Berlino, insieme ad Isaac, il suo bambino. Ci aspettiamo quindi di incontrare una donna spaventata, segnata dalle durissime vicende della vita e dall’odio religioso (uno zio l’ha apertamente invitata al suicidio, e le minacce da parte dei gruppi ultra-ortodossi si sprecano). «Invece no», dice con un sorriso smagliante Deborah, «mi sento più in forma che mai, sto benissimo qui a Berlino, fra tre mesi uscirà il mio romanzo e ne ho già in testa un altro».
Seduta in un bar di Berlino-ovest, Deborah è elegantissima, il suo è un bel tedesco con lieve sound americano e lei sprizza energia da tutti i pori. «Per tutti qui nel quartiere sono “la signora col cagnolino” e mi sento davvero a mio agio in questa città che ama tanto i libri», fa lei alludendo a Paco, il suo cagnolino pezzato, e al racconto di Cechov. Quando è sbarcata nella capitale tedesca, Deborah viveva nel quartiere di Neukölln, l’Istanbul sulla Sprea. Allora suo figlio Isaac aveva 10 anni e Deborah aveva pubblicato già da due anni, per le edizioni Simon and Schuster, “Unorthodox”, il suo furioso libro di memorie che di colpo l’ha resa famosa in tutto il mondo, e odiata da tutte le comunità ortodosse, non solo ebraiche. «All’inizio il successo di “Unorthodox“ aveva motivi voyeuristici: per la prima volta un membro della setta rivelava quel che succede dentro le mura di ortodossia dei Satmar. E quel membro ero io, una donna di 26 anni che racconta tutto senza freni, anche i motivi del fallimento matrimoniale».
Per mesi “Orthodox“ è in cima ai bestseller del New York Times, poi viene tradotto in tutto il mondo (“Ex ortodossa”, in italiano dalle edizioni Abendstern, la nuova edizione uscirà il 26 agosto per l’editore Solferino). Nel 2015 poi è arrivato “Exodus”, in cui Deborah narra per filo e per segno del suo divorzio, gli studi di letteratura inglese al Sarah Lawrence College, i suoi viaggi in Europa, nei paesini dell’Ungheria sulle tracce della nonna (che perse tutti i suoi familiari ad Auschwitz), e alle origini dei Satmar, dato che anche il rabbino Teitelbaum scampò per miracolo ai treni dei nazisti per Auschwitz. «Teitelbaum era un rabbino con un forte carisma», dice sorseggiando il suo cappuccino, «ma il modello che lui e fondatori come mio nonno hanno costruito a New York è una prigione dai muri altissimi, e per noi donne la repressione totale». Ancora oggi quando parla dei mille tabù a cui era sottoposta sin da bambina - «non potevamo indossare nulla di rosso, non potevamo camminare per strada accanto a un uomo», ricorda - si accende di sdegno. «All’interno della comunità il destino della donna è di rendersi invisibile, il tuo corpo deve essere coperto il più possibile e nelle comunità ortodosse riconosci subito il passo femminile perché per strada le donne si affrettano per sparire il prima possibile dalla circolazione».
È a scuola però che un ragazzina sveglia e assetata di sapere come Deborah sente di più il fiato opprimente del fondamentalismo. «La prima ora pregavamo», ricorda di quel training pazzesco e tutto in yiddish, «poi veniva Storia ebraica, che nella ideologia Satmar non è che la storia delle persecuzioni che culminano nell’Olocausto». In questa “ideologia” dogmatica Hitler è solo l’ultimo dei segni della collera divina per le disubbidienze del suo popolo. E il sionismo con la fondazione dello Stato di Israele l’ultima delle aberrazioni politiche.
«A chi è fuori dal gruppo tutto ciò può sembrare pazzesco», dice affranta Deborah, «ma ogni anno a Manhattan i Satmar protestano contro Israele bruciandone per strada le bandiere». L’ortodossia è un veleno pesante che penetra lentamente e dalla più tenera età nella pelle e nella mente. «Una bambina di un’altra comunità ebraica», ricorda lei, «un giorno ci offrì della cioccolata, ma mia cugina la rifiutò. Da allora ho iniziato a domandarmi come si può essere ebrei, ma non kosher. E da quella scena ho iniziato a capire che il fondamentalismo è una costruzione con mille varianti e contraddizioni». In effetti, persino gli usi e costumi di una setta come i Satmar possono risultare laschi se fai parte del gruppo “Lev Tahor”, «che in ebraico significa “Cuore puro“», spiega Deborah, «talmente puro che le loro donne girano in burqa e sono i talebani dell’ortodossia ebraica». Per certe “femministe integraliste” anche la decisione di indossare veli religiosi, dal hijab al burqa, può essere un segno di emancipazione, una teoria che manda Deborah Feldman su tutte le furie. «Nelle società islamiche o ortodosse la donna è sentita come una minaccia da controllare continuamente. La sua esistenza è un attentato alla purezza dell’uomo nel suo rapporto con Dio. Con questi veli la donna si sottomette ai dettami di una teocrazia, e non vedo cosa ci sia di liberatorio in questo».
Quel che è sicuro è che proprio la genuflessione davanti a ferree norme teologiche scatena, agli occhi di noi profani postmoderni, una grande curiosità. Come si vede dall’enorme successo su Netflix non solo di “Unorthodox” – la serie in quattro puntate firmata dalla regista tedesca Maria Schrader e ispirata appunto alla vita di Deborah - ma anche dalle tre stagioni di “Shtisel”, la serie su una famiglia ortodossa di Gerusalemme.
Nel film “Unorthodox“ la stupenda Shira Haas, l’attrice israeliana nel ruolo di Esther Shapiro, piange e si dispera quando la zia la rade a zero per le nozze. Deborah invece confessa «di aver ammirato la forma della mia testa ed aver vissuto con leggerezza quel momento». Ma c’è anche un’altra differenza saliente fra realtà e fiction. «La scena del taglio dei capelli è stata la prima che abbiamo girato a Berlino. Shira da bambina ha avuto un tumore e a scuola era “la bambina senza i capelli”. Ha quindi davvero sofferto quando ha girato quella scena per “Unorthodox”». Anche il concetto di appartenenza o di identità, due parole quasi magiche nel dibattito etico-politico attuale, variano molto se ne parliamo con Deborah. Dal suo punto di vista di donna sottomessa per oltre 20 anni a un’agghiacciante dinamica di gruppo quelle due parole generano rifiuto e angoscia. «In tedesco appartenenza si dice “Zugehörigkeit” che in yiddish, guarda caso, significa “normale”. Ma io oggi non voglio nessuna appartenenza, e non appartengo a nessuno tranne che a me stessa».
È per questo che tutto il percorso (o la fuga) di Deborah da New York a Berlino, il senso dei suoi libri di memorie e dei romanzi che sta scrivendo si fondano su un’idea semplice: quella della felicità personale. Che in sintesi è l’esatto opposto di ciò che Tolstoj racconta con la storia di Anna Karenina. «Nell’incipit del suo capolavoro Tolstoj ci dice che la felicità rende eguali, e l’infelicità unici», sottolinea Deborah: «Io invece credo che la felicità sia un percorso ad alti rischi e costi, che comporta la liberazione dai dogmi altrui e dalla tradizione, ma è sempre una storia di sviluppo personale». La felicità come individualismo a tutti i costi, e contro tutti, sembra una variazione del mito americano del self-made man o del cow boy che, a suon di pallottole, difende lo steccato del suo ego. Ma per Deborah non è così. « I giornali americani vorrebbero che raccontassi la mia liberazione dal dogmatismo come la forma perfetta del sogno e della vita negli Stati Uniti ma la mia è una storia profondamente europea, nata e radicata nella Vecchia Europa».
Non è un caso quindi se Deborah Feldman, la nipote di superstiti della Shoah, ha deciso di vivere con suo figlio Isaac Benjamin a Berlino. Per chi ha voltato le spalle alla propria setta, alla famiglia e al coniuge non è per niente scontato, insomma, parlare di felicità. «Quando a mio marito Eli, a New York, dissi di lasciare tutto perché lì non sarebbe mai stato felice lui mi rispose: “Happy, what does it mean?”», ricorda: «In uno spazio religioso esiste la gioia, forse l’estasi in Dio, ma non la felicità personale».
Deborah Feldman, nata a New York il 17 agosto 1986, e ormai cittadina tedesca, la felicità l’ha trovata a Berlino e soprattutto nella letteratura. « Per me la letteratura è una cassa di risonanza che amplia le tue percezioni del mondo e della vita», dice convinta. Da brava americana, cita “L’amica geniale“, la saga di Elena Ferrante percepita negli Usa, persino da autori come Jonathan Franzen, come modello esemplare di “salvezza” nella letteratura. «Sì, anch’io come la protagonista della Ferrante vivo la letteratura come potenziamento personale e liberazione dal passato», ammette.
A differenza dell’epos tutto napoletano di Lila e Lenù, è però a Primo Levi che Deborah si ispira quando pensa al mistero della letteratura. «Levi per me è uno degli scrittori più importanti in assoluto, l’unico che riesce a descrivere le situazioni più brutali dell’uomo come se le guardasse dal cielo. Nella tradizione dell’ebraismo c’è l’idea di angeli incarnati in alcuni corpi umani, e per me in Levi si è nascosto uno degli angeli della letteratura».
Una casa editrice tedesca le ha già chiesto di scrivere un saggio per interpretare l’opera e la vita dell’autore di “Se questo è un uomo“. Il romanzo sulla figura dell’angelo e di una bambina forte, impertinente e geniale l’ha già scritto, e uscirà a settembre per le edizioni Luchterhand. «Si intitola “Miriam” ed è la storia di una moderna profetessa che vive ad Anversa, e che morde il dito dell’angelo che le sta toccando le labbra prima che lei venga al mondo. È così che Miriam sceglie il suo destino». Nelle tradizioni e leggende del chassidismo, da cui proviene la famiglia di Deborah e della sua ex comunità Satmar, non è presente solo la figura dell’angelo, ma anche quella di una donna forte, diventata la prima rabbina. «Viviamo in un mondo oltre la religione», conclude Deborah: «Eppure siamo alla ricerca disperata di nuove profetesse ispirate, come Greta, l’icona del movimento ecologista». O come lei stessa, Deborah Feldman, la donna che mise in ginocchio il rozzo dogmatismo e il maschilismo di falsi profeti.