La passione per la musica pop, gli esordi, le mostre, i progetti: incontro a tutto campo con l’illustratore collaboratore de L’Espresso

Se penso alle estati italiane degli anni ’80, quelle fotografate da Claude Nori per intenderci, ai juke-box degli stabilimenti balneari che diffondevano le hit dei Pooh o degli Alunni del sole, a quella società così ingenua ma che sembrava avere tutta la vita davanti, ecco se penso a tutto questo, lo ricollego subito all’illustratore Antonio Pronostico.

Questo vissuto non si vede direttamente nel lavoro di Antonio, ma lo si intuisce. Le sue immagini sono morbide, romantiche, sofferenti di una sofferenza mai aggressiva. Le sue matite colorate - che padroneggia con naturale talento - danno vita ad arcobaleni di colori mai banali e a texture geometriche che rasentano l’optical art. Pronostico negli anni ’80 era appena nato ma ha ereditato quello spirito “leggero” e ha sviluppato una vera e propria passione (ossessione?) verso la musica pop italiana di quel periodo.

 

Da dove nasce questa particolare predisposizione?
Ti ringrazio per questa domanda perché, in effetti, è un po’ da questa ossessione che nasce la passione per il disegno. Durante la mia adolescenza, mentre al liceo i miei compagni fondavano gruppi musicali che inneggiavano al punk e al rock, io venivo influenzato dai gusti di mio fratello maggiore che oscillavano tra il pop italiano di Eros Ramazzotti e la musica italodance di Albertino e Fargetta. Questo mix, arricchito con la musica italiana d’autore, scoperta durante il periodo universitario, ha trasformato quello che era un segno storto e punk del marker nero verso quello morbido e romantico di una matita. Ritrovando l’amore nei versi malinconici di Piero Ciampi senza disdegnare nemmeno gli amori (pop) infiniti di Venditti che fanno dei giri immensi e poi ritornano.

Il tuo percorso per arrivare all’illustrazione non è stato lineare. È passato attraverso una laurea in disegno industriale e in seguito sei approdato in una redazione giornalistica. Poi? 
Disegno Industriale è stato un ripiego, consigliato da un carissimo amico, dopo non aver passato il test di Architettura a Firenze. Questo stesso amico, in quello stesso periodo, mi ha fatto scoprire il fumetto di Andrea Pazienza e mentre all’università insegnavano la grafica, io mi esercitavo nel disegno che ancora non conoscevo bene. Dopo la laurea e qualche colloquio mi assunsero in un gruppo editoriale che edita due riviste, Left e Il Salvagente e mentre disegnavo ogni giorno le pagine di queste riviste, Alessio Melandri (all’epoca Art Director di quelle testate e che ora lavora a L’Espresso) mi insegnava la grafica che, nonostante la laurea in Disegno Industriale, ancora non conoscevo bene. Alessio e le due riviste sono state, nel bene e nel male, una buona scuola per il mio percorso di disegnatore. Dopo aver terminato questa esperienza lavorativa ho deciso che era arrivato il momento di portare avanti un progetto più autoriale che raccontasse qualcosa di mio. L’ideale sarebbe stato un fumetto, che negli anni universitari era stato per me un’ossessione, ma mi mancava tutta la parte di scrittura e allora ho deciso di portare in mostra un progetto che, attraverso illustrazioni legate ad estratti di canzoni di diversi cantautori, raccontasse una storia inedita dal titolo Amore amore un corno.  

Sei autore di “Sniff”, una graphic novel creata insieme a Fulvio Risuleo e pubblicata da Coconino Press che ha avuto ottimi riscontri sia di pubblico sia di critica. Come è nata?
Dopo l’esperienza lavorativa in redazione, oltre ad avere più tempo per lavorare ai miei progetti, avevo anche molto più tempo per frequentare i vari studi sparsi per il Pigneto (quartiere di Roma che abito e frequento) e confrontarmi quotidianamente con gli amici. Tra queste varie chiacchierate, un giorno, ero finito per tornare sull’argomento fumetto con il mio caro amico Fulvio Risuleo, regista, sceneggiatore e disegnatore. Insieme ricordammo il nostro primo incontro quando io, trasferitomi da Firenze a Roma, gli chiesi di scrivermi una storia per bambini. Fulvio il giorno dopo mi portò una storia bellissima, ma io non la realizzai mai. Dopo sei anni gli ho chiesto di scrivermi la storia per un fumetto, ma lui, remore di quella storia mai disegnata, si mostrò molto vago. Tentai in tutti i modi di convincerlo buttando giù idee che avevo su diverse storie, che non ero in grado di scrivere, e che a Fulvio non piacevano. Infine, quando ormai stavamo per separarci, gli raccontai un’ultima idea, quella che mi sembrava più stupida e che non volevo raccontargli, e cioè due storie d’amore parallele: quelle tra due persone che si stanno per lasciare e quella dei loro rispettivi nasi che invece si amano alla follia (e sanno che prima o poi saranno costretti a lasciarsi). Così nasce Sniff.

Ne state preparando un’altra?
Ora stiamo lavorando ad un’altra storia che uscirà dopo l’estate, edita sempre da Coconino Press. Un’idea che esposi a Fulvio, ma che a lui inizialmente non interessava. Solo dopo un litigio amoroso mi disse: “Ricordi quell’idea che mi avevi raccontato per un fumetto? Ora l’ho capita!”

A livello stilistico c’è differenza tra disegnare per un giornale e raccontare una storia di più ampio respiro? L’approccio a queste due tipologie di lavoro è lo stesso o cambia?
C’è sicuramente differenza e per quanto mi riguarda, anche a livello stilistico. Devo dire che aver disegnato il mio primo graphic novel ha influenzato molto anche il mio modo di fare illustrazioni. Mi ha permesso di essere meno rigido e soprattutto di non aver paura di lasciar andare il segno, a volte anche di tanto… Penso che in una storia lunga ci si possa prendere la briga di lasciarsi andare nell’utilizzo del segno, a volte anche per garantire una maggiore comprensione della storia stessa. Il disegno per un giornale ha dei limiti, oltre che concettuali, anche di spazio, entro cui devi riuscire a narrare qualcosa senza poter utilizzare stravolgimenti del segno. In un graphic novel, invece, questi stravolgimenti determinano un ritmo a volte fondamentale. Per questo, purtroppo, a volte accade che alcuni disegnatori siano più potenti nelle illustrazioni che nel fumetto o viceversa, ed è un peccato. In una storia lunga, il disegno non comanda su una sola pagina, ma nel susseguirsi di tutte le tavole, dalla prima all’ultima vignetta e ancora nello stravolgimento della classica griglia di un fumetto, come accade spesso in Andrea Pazienza (Pentothal è un esempio perfetto). Quel “caos” in ogni tavola, nell’insieme, segue un ordine ben preciso legato alla storia che si sta raccontando. Allo stesso modo il disegno per un giornale deve essere in armonia con la grafica dell’impaginato. Quando lavoravo nella redazione di Left, Alessio Melandri spesso, quando disegnavo gli articoli del giornale, mi riprendeva rimproverandomi di essere troppo “artista”. Mi ricordava che non dovevo fare “l’opera d’arte”. Io non capivo. Solo adesso, cogliendo la differenza che c’è tra un’illustrazione o un graphic novel rispetto ad un disegno per un giornale, capisco quello che voleva dirmi.

Il tuo rapporto con L’Espresso.
La mia prima volta a L’Espresso penso non la dimenticherò mai. Tu e Alessio, mi avevate chiamato per illustrare un articolo sulla disuguaglianza tecnologica, specificando che volevate un tratto vettoriale e che l’illustrazione serviva per il giorno dopo. Il poco tempo a disposizione in realtà non mi preoccupava, ma realizzare l’illustrazione in vettoriale, per me che ormai usavo solo le matite, un po’ mi faceva tremare le gambe. Però, pur di farla, non battei ciglio! Questo coraggio durò poco e passai una notte insonne a far avanti e dietro per casa, cercando un’idea forte, ma il più semplice possibile, in modo da poterla poi realizzare in vettoriale. Come ogni storia eroica, questa finì in maniera gloriosa, ma inaspettata. Il disegno alla fine, contro ogni aspettativa, lo feci a matita. Andò bene e se non ricordo male vi piacque molto. Sono contento perché penso che, questa prima illustrazione per L’Espresso, fatta alla fine a matita, ha poi determinato il fatto di essere chiamato ogni qual volta un articolo richieda quel segno e quei sentimenti che mi appartengono e penso non ci sia modo migliore per lavorare.

Nel settembre 2020 la Galleria Glénat di Parigi ha organizzato una tua mostra personale. In precedenza avevi già esposto i tuoi originali a Roma, presso la Libreria Marini, e stai preparando un’altra mostra che vedrà la luce entro l’anno. Come si entra in un circuito artistico? Quanto è importante arrivarci?
Disegnando con le matite ho una vasta produzione di originali che non vedo l’ora di mettere in mostra, soprattutto perché, lavorando con l’editoria, il mio lavoro viene sempre riprodotto in stampa e quando invece ho la possibilità di mostrare gli originali è sempre un’emozione forte perché è un po’ come mostrare la propria intimità. Esporre una personale a Parigi nella Galerie Glénat è stata un’esperienza gigante, ma ancor di più lo è stata conoscere e confrontarmi con una serie di disegnatori che da sempre stimo, autori come Giacomo Nanni, Alessandro Tota e altri… Scusami se apro una parentesi e vado fuori tema, ma vorrei raccontarti una cosa per me magnifica e cioè vedere come ogni nostro “gigante” diventa piccolo a sua volta di fronte un suo “gigante”. Al Lucca Comics del 2019 conobbi Gipi allo stand di Coconino e tanta fu l’emozione nel conoscerlo che riuscii a mala pena a dirgli “ciao”. Quella sera ci ritrovammo a bere in un locale e al tavolo con noi si sedette un altro gigante, Tanino Liberatore. Lì vidi con la stessa emozione che avevo io quella mattina, Gipi cacciare il suo ultimo fumetto e darlo a Liberatore con tanto di dedica e una stima enorme. L’indomani vidi quel gigante di Liberatore diventare più piccolo chiedendo ad un editore di Coconino di presentargli il suo gigante, Francesco Tullio Altan. Io spero che questo giochino del gigante non finisca mai. Tornando alla Galerie Glénat e a quella emozione fortissima, in Italia c’è una sensibilità diversa nei confronti dell’illustrazione e ancor di più per il fumetto. Ma ultimamente l’illustrazione sta tornando protagonista nella comunicazione visiva e il fumetto si sta facendo strada anche nei salotti più insoliti. Ora sto lavorando ad una nuova personale a Roma dove realizzerò anche delle tele grandi per sperimentare un po’ la pittura e mi hanno contattato per partecipare ad una collettiva a Jesi solo con tavole di fumetti.

 

Negli ultimi mesi hai iniziato ad alternare la tecnica manuale - le matite colorate - con la tavoletta grafica. Come ti trovi con le immagini digitali? Quali sono i pro e quali i contro?
Da poco tempo e dopo tante battute da parte di amici, perché utilizzo ancora le matite colorate, ho finalmente comprato un Ipad per disegnare. Per me, che ero molto critico verso l’utilizzo di un supporto digitale, è stato importante usarlo per capire una cosa molto impostante. I pro e i contro ci sono se si decide di sostituire il digitale con l’analogico, ma se si decide di utilizzare la tavoletta grafica come un’alternativa alle matite, allora cambia tutto. Logicamente la prima cosa che ho fatto, una volta comprato l’Ipad, è stata cercare di simulare l’effetto dei miei disegni a matita con il digitale. Ma, dopo avere per anni cercato di avvicinarmi ad una perfezione digitale con le matite, che senso ha e quanto è assurdo con il digitale cercare l’imperfezione della matita? Allora l’idea è quella di cercare di sfruttare e spingere al massimo il digitale, andando là dove si ferma la matita.