La fede nel Duce. Il razzismo. La sposa bambina in Etiopia. Berlusconiano prima, anti-berlusconiano poi. Oggi il giornalista è un monumento contestato e imbrattato. Ma pochi come lui rappresentano le contraddizioni del nostro Novecento

E va bene, d’accordo, non vi piace Indro Montanelli, non ci piace più, la statua a Milano imbrattata più volte, il dibattito riaperto sui suoi trascorsi coloniali, sulla sposa bambina in Etiopia, su questo e quel passaggio di un’esistenza «lunga e tormentata», come lui stesso la definì. Però: se fosse un personaggio di romanzo? Piacerebbe anche a chi, dal vero, lo detesta. Piacerebbe a chi legge entusiasta le parole di Walter Siti: nel recente pamphlet “Contro l’impegno” (Rizzoli), lo scrittore invoca personaggi moralmente complessi, la cui parabola renda meno stabili, e meno comodi, i nostri criteri di giudizio morale.

No, certo, non è un personaggio di romanzo, ma come si fa a definire altrimenti che romanzesca la vita di uno nato praticamente insieme al Ventesimo secolo e scomparso un mese e mezzo prima dell’11 settembre 2001, proprio mentre a Genova il sangue macchiava le strade? La Belle époque di provincia toscana. Un nonno che chiama figli e nipoti all’intervento nella Grande Guerra. La fede in Mussolini e la fronda. La rocambolesca e ambigua uscita dal fascismo, una condanna a morte.

La rincorsa nella carriera giornalistica, la guerra russo-finlandese, l’Ungheria e i carri armati nel ’56, un incontro di sfuggita con Hitler, non comprovato, un dialogo con Perón, sicuro, e con Giovanni XXIII, con Golda Meir, con decine di protagonisti. Le pallottole delle Brigate rosse nel ’77. L’attrito con Berlusconi, editore del Giornale che Montanelli fondò nel ’74, l’addio al quotidiano, il ritorno al Corriere della Sera, di cui è stato indiscutibilmente, per decenni, la prima firma. L’ultimo articolo scritto un mese prima di morire. L’auto-necrologio dettato su un letto di ospedale: «Prende congedo dai suoi lettori, ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito».

Non perdo niente a confessare che mi impressionò. Un uomo che da solo sceglie le parole con cui andarsene: «Non sono gradite cerimonie religiose né commemorazioni civili». Mi impressionò come mi avrebbe impressionato, di lì a poche settimane, il riaffacciarsi, dopo un lunghissimo silenzio, di Oriana Fallaci sulla prima pagina del Corriere della Sera. Stavo andando a scuola, presi il giornale, rimasi imbambolato: «Mi chiedi di parlare, stavolta». Raccontava le Torri di New York, l’immane nuvola di fumo vista dalle finestre di casa sua a Manhattan; e a furia di rabbia e di orgoglio marcava una pericolosa contrapposizione fra «noi» e «loro». Scandalizzò. Deluse anche chi l’aveva profondamente amata. (Avrei scoperto più tardi di un progetto fallito di libro a quattro mani Fallaci-Montanelli: sulla Resistenza i due si scontrarono con violenza. Fallaci chiuse all’ex amico: «Sono le quattro del mattino e su New York sta per levarsi l’alba. Che notte difficile mi hai dato, Indro, che notte dolorosa. Io vorrei che almeno servisse a qualcosa: a ritrovarci perché, su questo maledetto argomento, ci siamo davvero perduti»).

 

L’estate del 2001! I giornali si affannavano a ribadire che il Novecento finiva. La parola globalizzazione. Genova. La morte di Montanelli. Il crollo delle Torri Gemelle. Ma un secolo non finisce in un’estate, continua a morire a lungo. Agonizza, si dibatte. Io ero un diciottenne confuso e appassionato ai giornali, che già cominciavano - loro forse sì - «a morire come immense falene» (è un’immagine, bellissima, di Bradbury). Leggevo, studiavo per prendere la patente. Avevo scritto lettere a Montanelli, ero riuscito a incontrarlo. Tese la sua mano lunga, magrissima, sulla mia guancia. «Ah, sei tu». Il ragazzino che gli aveva chiesto come tenere insieme «i giudizi contrastanti» letti non ricordo più su chi. Siamo un coacervo di contraddizioni, mi rispose. Te ne accorgerai crescendo. Me ne sono accorto. Continuano a sembrarmi più interessanti le vite altrui dei giudizi con cui le archiviamo; gli umani in carne e ossa, rispetto alle statue che imbrattiamo. Quelle restano ferme, noi possiamo muoverci. Il passato si può esplorare, analizzare, del passato si può riportare alla luce l’orrore, l’ingiustizia, e la figura anonima che quell’ingiustizia e quell’orrore ha subìto. Ma volgergli rivendicazioni, pretendere che risponda ai parametri etici dell’attuale è insensato. Come ritagliare dalle biografie altrui il segmento che stona, che non ci convince, che ci indigna. Ma nessuna esistenza somiglia a un’equazione, il risultato non torna mai.

 

Adesso che il secolo vecchio è finito davvero – quello nuovo ha vent’anni! – potremmo leggerlo con occhi più adulti. Evitare il rischio di disegnarcene uno parallelo su misura. La versione ucronica, alla Quentin Tarantino, del Novecento. Il secolo breve emendato. In moviola, tagliamo questa e quella scena. Una volta cominciato, è impossibile fermarsi: «Chi sono questi stronzi che nel passato si permettevano di avere valori diversi dai nostri? Cancelliamoli. Non voglio dire che stiamo sullo stesso solco di quelli che sbarcavano in Australia e cancellavano gli aborigeni, ma l’istinto inconscio è quello». Parola di Alessandro Barbero.

 

Dai, proviamo con gli scrittori. Di Pasolini, a breve celebratissimo per il centenario della nascita, prendiamo, per dire, la versione comoda, la versione light – e non le parole contro l’aborto, non le parole contro il femminismo. Nemmeno la scena di un suo romanzo, l’ultimo, in cui il narratore si china sul sesso di un ragazzo che «doveva essere molto più giovane di quello che dimostrava: forse era appena sui sedici anni». E poi sì, va bene, ci piace leggere Berto, il grande autore del “Male oscuro”!, ma come ce la caviamo con la pagina in cui scrive della sua sposa ragazzina in Etiopia e del «solito odore di burro rancido, di fumo e di sterco di animale»? E la straordinaria Ortese? Che nel ’97 parlava dell’ex capitano delle SS Priebke come di un «lupo ferito»? E la grande Morante che, venendo a “colpe” minori, non tollerava di essere chiamata poetessa?

 

Nello stupido agosto, definizione sua, del 2006, lo scrittore tedesco Günter Grass confessò di essere entrato, a diciassette anni, nella sezione giovanile delle SS. Fu travolto dalle polemiche e dagli insulti. Qualcuno pretese che restituisse il premio Nobel. «A quell’età in certe situazioni non mi posi le domande che avrei dovuto o voluto pormi», spiegò. «Un tempo da cui uscii, come molti altri, sciocco, ignorante e limitato». Ringraziò infine i pochi che fecero lo sforzo di giudicarlo «come persona nella sua completezza». Un decennio dopo, allo scrittore spagnolo Javier Cercas fu rimproverato di essersi occupato, nel romanzo “Il sovrano delle ombre”, dello zio franchista. Ha redento l’irredimibile! Come si può giustificare chi era dalla parte sbagliata? Ma farsi carico del passato più imbarazzante non significa questo. Capire - insiste Cercas - non è giustificare. E in una pagina bellissima scrive: «Pensai: è qui, sono tutti qui, nessuno di questa casa dei morti è morto. Nessuno se n’è andato. Nessuno se ne va».

 

Tocca così il segreto «più elementare e più occulto», e cioè che non moriamo, che lo zio Manuel non è morto; e capisce che scrivere di lui era scrivere di sé, «che la sua biografia era la mia biografia, che i suoi errori e le sue responsabilità e la sua colpa e la sua vergogna e la sua morte e le sue sconfitte e la sua paura e la sua sporcizia e le sue lacrime e il suo sacrificio e la sua passione e il suo disonore erano i miei, perché io ero come lui così come ero mia madre e mio padre e mio nonno Paco e la mia bisnonna Carolina, allo stesso modo in cui ero tutti gli antenati che confluiscono nel mio presente così come una moltitudine o una legione innumerevole di morti o una selva di fantasmi, come tutte le stirpi che sfociano nella mia stirpe provenienti dall’abisso insondabile della nostra ignoranza del passato».

 

Paolo Di Paolo è autore del libro “Montanelli. Vita inquieta di un anti-monumento” in uscita per Mondadori