Scrivere in versi

Jhumpa Lahiri: «L’italiano mi dà un’idea più precisa della vita»

di Caterina Bonvicini   22 luglio 2021

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Per la sua autobiografia, “Il quaderno di Nerina” (Guanda), la scrittrice ha scelto la poesia e un doppio alter ego. E si racconta, facendo finta di raccontare qualcun altro, anche con una certa autoironia. «Ho scritto queste poesie sentendomi un’altra. Nerina ha una serenità e una prospettiva che io riesco ad avere solo qui»

È un’autobiografia in versi, “Il quaderno di Nerina” (Guanda): per la prima volta Jhumpa Lahiri parla di sé e per farlo sceglie la poesia, l’italiano e un doppio alter ego. Gioca con le identità come Pessoa, fra una presunta autrice, Nerina, e una commentatrice pignola, Verne Maggio, che in nota mette in luce anche gli errori («le poesie sono piene di lapsus lessicali che un italiano monolingue non potrebbe concepire»). E si racconta, facendo finta di raccontare qualcun altro, anche con una certa autoironia («Nerina stessa tende a identificarsi come casalinga e scrittrice al contempo, nonché come straniera», si legge nella premessa).

Nel libro, con prefazione firmata da Jhumpa Lahiri, quella vera, tutto comincia da una casa di Roma, in Via Dandolo, e da una vecchia scrivania, dove viene ritrovato il manoscritto di Nerina. Ma anche nella vita reale tutto comincia da lì. «Questo libro non esisterebbe se io non fossi venuta ad abitare proprio in questa casa», dice Jhumpa Lahiri: «Questo libro è questa casa».


«Un alter ego serve a capire meglio l’identità frammentata, doppia, tripla, mista. Ho scritto queste poesie sentendomi un’altra. Nerina ha una serenità e una prospettiva che io riesco ad avere solo qui», mi spiega. «Nerina vive solo a Roma, che ha una posizione diversa fra l’India e gli Stati Uniti. La poesia era qualcosa di alieno da quello che avevo sempre fatto, all’inizio ero titubante, per mesi non ho fatto vedere niente a nessuno, ma continuavo a lavorarci, a buttare giù e a correggere, senza lasciare mai riposare il testo». Mi fa vedere uno dei suoi quaderni, tutto scarabocchiato. «Non avrei mai fatto il salto verso la poesia in inglese», dice. «Sentivo i versi nella testa in italiano, come se Nerina mi parlasse. Adesso non mi parla più. Un po’ come una persona che tu incontri per caso, con cui hai un rapporto molto intenso, ma sai che non durerà».
Guardo la scrivania, bagnata dalla luce bellissima di un giugno romano. Dice tutto di Jhumpa Lahiri, e anche di Nerina. Ci sono le opere di Gramsci e di Primo Levi, una foto di Pasolini, dei sassi raccolti al mare, il suo dizionario preferito, il Devoto Oli, una cartolina con un quadro di Morandi e una con un gioiello greco d’oro. E torna l’oro, come un filo narrativo, come il colore dominante della raccolta. Buttate sotto ci sono anche un paio di scarpe da ginnastica, sempre d’oro, citate nella poesia “Tre scarpe.” Le penne stanno in un barattolo di miele, che le piace perché si chiama ABC. Fra orchidee e piante grasse, c’è la foto incorniciata di Alberto de Lacerda, poeta portoghese, suo professore alla Boston University durante il dottorato, a cui ha dedicato una poesia. «Alberto era un grande amico», racconta. «Mi ha insegnato a conoscere Pessoa e a giocare con le identità. Mi spingeva in questa direzione, verso la libertà. Mi ha insegnato soprattutto la solitudine dello scrittore, non quella quotidiana, la solitudine mentale ed emotiva intendo, quella indispensabile alla scrittura». Poco più in là c’è un collage fatto da sua figlia Noor quando aveva nove anni, una citazione rovesciata, perché Nerina parla di un collage fatto dalla madre per la figlia (Jhumpa Lahiri ha una passione insospettabile: fare collage). E un foglietto tutto sbiadito con il verso di Montale che è all’origine di tutto, del suo amore per l’italiano e anche per la poesia: «Portami il girasole impazzito di luce».


Il girasole impazzito di luce è la nuova lingua di Jhumpa Lahiri, che non è né l’inglese né il bengalese, ma quella che lei ha scelto e che ha fatto sua. «Per la prima volta mi è venuto naturale parlare di me, perché in italiano sono un’altra. È come se qui avessi sempre intorno qualcuno che non mi accetta, che mette qualche barriera». Ma è proprio grazie a questi ostacoli che «il rapporto col lessico è viscerale», cioè uno spazio di libertà. «L’italiano è diventato talmente mio che posso dire le cose come sono, è il mio strumento più intimo».


E mi racconta una cosa che mi colpisce. «Ho appena perso mia madre e solo certi termini in italiano mi potevano spiegare l’impatto con questa perdita, quello che ho vissuto. Se dico “strazio” lego quello strazio al mio: c’è proprio una reazione chimica che ha a che fare con le parole. Il verbo “spegnersi” in inglese non esiste. E io, dentro di me, ho usato quello: “Si è spenta”».

Una poesia, intitolata “Il quaderno in cui mia madre”, forse chiude il cerchio. La raccolta è stata scritta prima del lutto, eppure il suo centro, il suo segreto motore, è quel quaderno dalla copertina gialla in cui sua madre scriveva i suoi versi bengalesi, di cui lei capiva «tre parole/insieme a tutte le sue viscere».
Un oggetto che, come tutti gli altri nel libro, di colpo sparisce, per poi ricomparire all’improvviso. Perché il grande protagonista della raccolta è quel «demonio / che sposta le nostre cose / come gli pare». Spariscono un anello, una bambola, un collage di Noor, un astuccio d’oro, un paio di scarpe. Il «movimento casuale o malefico» delle cose «che sfuggono per un certo periodo, / spostandosi nella stessa stanza, tormentandoci» diventa un mistero esistenziale.

«Poche settimane prima della pubblicazione, mentre il libro era in stampa, è sparito l’orologio che portavo sempre. Un epilogo non scritto, poteva essere una poesia di Nerina», racconta. «Questo è il secondo linguaggio del libro perché gli oggetti ci parlano, cercano di spiegarci delle cose. Ma è difficile interpretare il loro discorso. Ero disperata per avere perso l’orologio pur avendo appena perso mia madre. Non riuscivo a capire perché piangevo per un orologio da cento dollari. Perché faceva parte del mio corpo? Poi mi sono accorta che quando mia madre ha smesso di respirare, mio padre si è frugato nelle tasche per tirare fuori il cellulare. Mi sembrava una follia volere chiamare subito gli altri. Invece lui l’aveva preso in mano per guardare l’ora esatta».
E così gli oggetti perduti si legano a presagi, paure sinistre, dolori latenti che abitano la memoria. «Il meccanismo degli oggetti che si spostano in modo misterioso ricorda la lingua, anche le parole si spostano», dice. «Ci sono parole perse, ritrovate, abusate, trascurate». Tutta una miniera in cui Jhumpa Lahiri rovista (Rovistare. «Vuol dire cercare / dappertutto / parola attesa / a mia insaputa»). La sezione chiamata “Accezioni”, che un po’ ricorda Toti Scialoja, è intraducibile in inglese, suppongo anche in bengalese. Basta leggere alla voce Forsennato: «Forsemmorto, nel mio cervello / sarebbe il contrario». E qui si torna al demone che sposta le cose: la Jhumpa italiana, spostando un paio di lettere, esclude le altre due. Le taglia allegramente fuori dal suo girasole.

 

Persino la frutta porta con sé messaggi misteriosi, epifanie che includono sempre il loro contrario, cioè la sparizione: il torsolo di una pera mangiata «in maniera così rispettosa e perfetta», una goccia che cola lungo il polso dopo un morso a una mela, l’uva nascosta nel frigobar di un albergo. Cosa ci sta dicendo la frutta?
Attraverso un continuo oscillare di mondi, fra Trastevere e Calcutta, Boston, Brooklyn e Carloforte, secondo una geografia sentimentale, molto più che biografica, e un continuo oscillare di ruoli, madre-figlia-moglie, come di età della vita, Jhumpa Lahiri torna al grande tema dell’identità: il suo, da sempre.
«È la chiave di tutta la mia letteratura, sì», mi risponde, «ma in Nerina trova la sua versione più distillata e più inquietante. Perché sono io, l’altra».
Guardiamo il “Notturno con fanciulla” di Giosetta Fioroni in copertina e diciamo tutte e due convinte che la ragazza del ritratto assomiglia molto a Nerina. Stessa pettinatura, anche. Magari è lei.


«È il mio primo libro autobiografico», dice, «c’è stata un’apertura grande anche perché, sempre per la prima volta, ho parlato di Boston e di Calcutta, cioè della mia infanzia. E l’ho fatto attraverso una lingua che non esisteva nella mia infanzia. Ogni volta che torniamo al passato, lo guardiamo da un punto di vista diverso, a seconda del momento che stiamo attraversando. Mi sono accorta che in italiano riesco a dare significato a delle cose che prima non riuscivo a definire. L’italiano mi dà un’idea più chiara e precisa della vita. Mi fido di più della lingua, con l’italiano. Forse perché questa lingua l’ho scelta io. Perché l’ho amata in maniera molto particolare, l’ho adottata, e l’adozione è un amore prezioso. E ti aiuta a stappare te stessa». E fa un gesto, come per stappare una bottiglia. Che subito dopo stappiamo davvero, per bere un bicchiere di vino sul suo terrazzo, davanti a un bellissimo tramonto romano («Qui nel silenzio fulgido vedrai / il cielo romano cangiante / esteso tutto il tempo»).