Infantili, egoisti, indifferenti. Ma anche generosi, sentimentali, coraggiosi. Lo scrittore ha forgiato un modello di cittadini e progettato il carattere di una nazione popolata da “brava gente”

De Amicis ha inventato gli italiani. Ne ha espresso le possibili coordinate di popolo, ne ha tracciato l’unico profilo unitario che soprassedesse alle immense differenziazioni che da sempre lo contraddistinguono. E tutto ciò perché aveva a «cuore» un modello di società utopistico fino al punto di pensare che si è felici solo a patto di essere felici di quello che si è. Una tautologia soltanto apparente. Un intento assai meno semplice di quello che sembrerebbe a prima vista. Perché lavorare su un materiale incandescente come una nazione da farsi, nonostante sulla carta avesse circa vent’anni, e cimentarsi a fornire punti di riferimento, e intenti comuni, a gruppi di cittadini che, fino a pochissimo tempo prima, erano vissuti in uno stato di separazione amministrativa e geografica, era un’impresa da sognatore, o da pazzo (…). Eppure quel sistema, arrivato intatto persino ai giorni nostri, quel dispositivo, da lui messo a punto, ha funzionato alla perfezione. Sul fatto che sia un bene che abbia funzionato si potrebbe discutere, ma il dato sostanziale è che, quando nel 1886 nelle vetrine delle librerie, nelle case, nei banchi di scuola apparirà Cuore, questi italiani endemicamente difformi, geneticamente polemici, caratterialmente lagnosi, difettosi nel senso di patria, politicamente pusillanimi, saranno diventati, definitivamente, «brava gente». Questo abito di alta sartoria che veste e nasconde qualunque bruttura, che individua nella bontà utopistica un punto di unione, un collante nella separatezza, e fornisce una exit strategy sociale, è il vero, geniale, contributo intellettuale, antropologico, politico di Edmondo De Amicis.

 

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Cuore è l’unico classico della letteratura italiana che non sia scaturito da esigenze prettamente letterarie. Ma da un impegno etico preciso. Qualcosa che ha a che fare con gli esperimenti giovanili del De Amicis prima che lasciasse l’esercito e che, nel 1869 aveva stilato per Le Monnier “Racconti militari”: libro di lettura ad uso delle scuole dell’esercito. Una propensione didattica che arriva da lontano dunque. E che, lo sapeva benissimo, poteva rischiare di inficiare il valore stilistico dell’opera. Cosa che di fatto avvenne, proprio per la perfezione con cui quel contenuto si adatta al contenitore. Quando la scrittura calza a pennello sparisce. Sicché a De Amicis vengono additati molti luoghi comuni che non erano tali prima che lui stesso li inventasse. E tuttavia di letteratura si tratta, considerando che, come detto, Cuore inizia esattamente dove finiscono I promessi sposi. E cioè da quella «birberia», detta anche pubblica istruzione, o istituzione scolastica, attraverso la quale si poteva ottenere una nazione «ben inclinata». Uno spazio dove si potesse riprodurre in vitro quella stessa difformità, quella stessa incapacità di coesione, quella stessa, infantile, tendenza a non assumersi responsabilità sociali, che caratterizzava, e caratterizza, il rappezzato popolo italiano. Per inventarsi gli «italiani brava gente» è stato necessario coltivarli in una serra dove tutti i loro difetti endemici potessero, almeno sulla carta, diventare pregi. E dove si potessero attivare quelle qualità intrinseche che avviassero un processo virtuoso di contributo e assistenza reciproci, anziché uno di rivendicazione e sopraffazione continui.

 

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Chi pensasse all’opera di De Amicis solo in termini prettamente letterari avrebbe però una visione assai limitata della portata che la letteratura può avere se professionalmente indirizzata. De Amicis è stato un professionista formidabile. Il suo modello di Italia ha come fine ultimo quello di salvare gli italiani da sé stessi. Ed è il risultato di un apprendistato che dura fin dalla prima adolescenza, quando il dubbio era tra fare lo scrittore o il soldato. È l’esito di un pensiero politico e letterario che formalizzando sardi sacrificali, lombardi guardinghi, romagnoli sanguigni, fiorentini artisti, liguri viaggiatori con poca spesa, siculi figli della Provvidenza, veneti semplici e introversi, campani col cuore in mano, e cosí via, ci ha convinto che il segreto di una nazione coesa era nella retorica di sé stessi. Cuore è quell’abito della bontà, o della bonomia, che costantemente rinneghiamo, ma che non abbiamo mai cessato di portare.

 

Idee
Ritorno al libro Cuore, un popolo in una classe
31/8/2021

È il mantello con cui copriamo la natura ferina che ci contraddistingue confezionato da un sarto, De Amicis, che combatte contro l’opinione corrente del suo e del nostro tempo. Che intravede cioè la possibilità di inventarsi un senso di popolo dove quel senso languiva e languisce (...). Perché in fondo l’Italia era ed è ancora la nazione che Benedetto Croce inquadra come ricoverata nel nosocomio dove devono stare rinchiusi gli affetti da una inguaribile malattia morale. La stessa precisa patologia nazionale che Piero Gobetti qualifica come analfabetismo democratico. Quella di un paese che Pier Paolo Pasolini condanna senza appello come «brutalmente egoista» e che Carlo Emilio Gadda, che pure era stato fascista, in Eros e Priapo, descrive come abitato da un popolo strepitosamente paradossale: «quei liceali trombati a mezzo, quegli universitari malinconici e titubanti con diciotto esami da smaltire fuori corso: o indocili perdigiorno che vivacchiavano di espedienti» (...). A caratterizzarci da sempre è quella condizione immobile che Umberto Eco, non certo tifoso di De Amicis, chiama Ur-Fascismo dalle caratteristiche spaventosamente immortali.

 

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De Amicis è dunque, innanzitutto, un’eccezione passata e presente. Un’eccezione tutt’ora. Un ingenuo progressista che crede di poter indicare una strada alternativa alla realtà di cui, come è capitato alla maggior parte degli intellettuali di questo paese, conosce perfettamente le storture: è stato soldato, è stato viaggiatore, è stato, e in fondo è rimasto sempre, socialista. Ha scritto il primo e unico romanzo italiano del suo tempo che tratti il tema dell’emancipazione femminile, goffamente certo; tuttavia Amore e Ginnastica resta comunque un tentativo straordinario di suggerire un tema caldo a una nazione possentemente maschilista. È un brav’uomo Edmondo, ha capito che la potenza delle proposte consiste nel coraggio con cui si fanno. Ha in mente il valore socialista con quel tanto di ingenuità utopica e capacità di scandalo che contraddistingueva i retti padri della patria. E s’ingegna di mettere a punto una nazione vera, coesa, certo schematica, ma possibile: empatica, solidale, filantropica. Indubbiamente un po’ melò, ma non lo sono anche Verdi e Puccini? Valore socialista dunque, non populista. A differenza di quanto si possa pensare i due sentimenti sono inversamente proporzionali piú che opposti in senso stretto. La parola buonista è l’ultimo parto di questo rapporto tra chi si sforza di essere brava gente e chi è convinto di esserlo. Ci sono i buoni che non si mettono mai in discussione e quelli che costantemente lo fanno: i buonisti appunto. Il valore populista è draconiano, quello socialista è dubitativo. De Amicis, dunque, per chi avesse la furbizia di leggerlo come va fatto, risulterebbe buonista, nell’accezione solidale che si vuol dare al termine, ma tutt’altro che buono. Se fosse buono non non metterebbe queste parole in bocca al maestro Perboni: «Voi... avete schernito un disgraziato, percosso un debole che non si può difendere. Avete commesso una delle azioni piú basse, piú vergognose di cui si possa macchiare una creatura umana. Vigliacchi!».

 

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Quel «vigliacchi» conduce il pensiero ai nostri giorni, all’inutile complessità di cui rivestiamo i nostri tentennamenti e la nostra incapacità generalizzata di nutrire un sentimento solidale nei confronti dei migranti che respingiamo o rinchiudiamo nei centri di accoglienza. È retorico quel «vigliacchi», è solo edificante, o semplicemente, pericolosamente, calzante? E poco piú avanti: «Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai piú gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore». Una specie di memento semplificato per tutti quegli «amanti del tricolore» che pensano sia possibile pronunciare nella stessa frase «prima gli italiani» e «terroni».

 

© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

“L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore” di Marcello Fois (Einaudi, pp. 104, € 12) da cui è tratto il testo qui anticipato, arriva in libreria il 7 settembre. L’autore presenterà il saggio il 12 settembre al Festivaletteratura di Mantova (Tenda Sordello, ore 16) e a Pordenonelegge il 17, in un Elogio di De Amicis (ore 21, Spazio Gabelli)