Dominazioni. Discriminazioni. Storie di ordinario sessismo. Esce in Francia un’importante storia mondiale del femminicidio. Reato antico quanto l’umanità. Colloquio con Christelle Taraud, la storica e femminista che ha diretto l’opera monumentale, e la studiosa Patrizia Romito

Il femminicidio non è né solo un atto individuale, né solo un atto isolato che può essere ridotto ad “anomalie” della mascolinità: è un aggregato di violenza contro le donne che le colpisce dalla nascita alla morte e si ritrova in tutte le epoche e in tutti i continenti. Parola di Christelle Taraud, storica e femminista, specializzata in questioni di genere, che ha diretto sul tema un’opera monumentale di quasi mille pagine uscita in Francia per le edizioni La Découverte. “Féminicides. Une histoire mondiale” si è avvalsa di competenze congiunte (accademica, militante, artistica, giornalistica) e di una coralità di voci, anche italiane, grazie alle quali è stato possibile approfondire la questione in un arco cronologico molto lungo, dalla preistoria ai giorni nostri.

Abbiamo raggiunto l’autrice e Patrizia Romito, la studiosa italiana che ha scritto il capitolo dedicato a “Mascolinismi e femminicidi”, dove mette in luce le relazioni tra il sessismo ordinario invisibile, che potremmo definire benevolo, e le situazioni di discriminazione più pesante che portano alla violenza e in alcuni casi al femminicidio.

Professoressa Taraud, qual era l’obiettivo del vostro studio?
C. T.:
«Far luce sul sistema di dominazione fino all’eliminazione fisica delle donne al centro della macchina femminicida. Un sistema antico quanto l’umanità stessa e che investe tutti gli ambiti della vita: dagli aspetti più fisici a quelli più simbolici. Come affermano, tra le altre, Patrizia Romito e Rita Laura Segato, è giunto il momento di uscire dalla preistoria patriarcale dell’umanità e dalla dominazione maschile che la fonda».

Qual è, a suo giudizio, l’elemento più interessante che è emerso?
C. T.:
«Indubbiamente l’antichità del reato. L’archeologia e l’antropologia femministe fanno ormai risalire almeno al Neolitico la discriminazione delle donne, che è senza dubbio la prima nella storia dell’umanità, radice di tutte le altre. Anche se è molto complicato, come spiega nel libro la paleontologa francese Claudine Cohen, trarre modelli interpretativi definitivi dalle tracce archeologiche, le cose sembrano giocarsi quando le società di cacciatori-raccoglitori, che erano endogame e prive del tabù dell’incesto, hanno dovuto attraversare tempi difficili. Di fronte a una crisi climatica o a una guerra di clan praticavano l’infanticidio, in particolare quello delle bambine. Solo che, superata la crisi, iniziava la lotta, meno per le risorse alimentari che per le donne, che scarseggiavano e di cui questi gruppi avevano un bisogno cruciale per rinnovarsi e svilupparsi. Questo è ciò che ha dato origine all’esogamia, accompagnata dal tabù dell’incesto: le prime razzie effettuate al di fuori del gruppo avevano quindi spesso lo scopo principale di razziare donne e ragazze. Per questo la donna può essere considerata come “la prima colonia”: il suo corpo diventa un territorio che l’uomo cerca di accaparrarsi per crescere. Lo illustrerà la leggenda del ratto delle Sabine: i romani si impossessano degli “uteri su gambe” per popolare la terra che hanno appena conquistato».

Perché è così importante, al punto che avete scelto di riportarlo nel titolo, l’uso del termine femminicidio, che alcuni — almeno in Italia — continuano a contestare?
C. T.:
«La genealogia intellettuale e politica della parola femminicidio risale alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti. Il termine emerge nel duplice contesto della ricerca femminista e del pensiero sui serial killer, che di solito sono assassini di donne. La ricercatrice americana Diana Russell ha coniato la parola femminicidio per designare l’assassinio di una donna perché donna, in un ambiente intimo, coniugale, privato, da parte di un marito o ex marito, compagno o ex compagno. Un decennio dopo, la riflessione rimbalza in Messico con la scoperta delle fosse comuni da cui vengono riesumati i corpi di moltissime donne. La ricercatrice messicana Marcela Lagarde de los Rios propone poi il termine femminicidio per qualificare omicidi che non hanno più solo carattere individuale e privato, ma coinvolgono una dimensione politica, collettiva e una responsabilità statale. Oggi, nel linguaggio comune, si usa spesso il termine femminicidio al posto della parola “femicidio”. Possiamo discutere, cavillare, dire che dobbiamo cambiare il termine, ma mi sembra che se la parola si è imposta è perché parla meglio alle persone. La cosa principale per me è che mette in luce la violenza che è diretta contro le donne, sia individuali che collettive, mettendo gli Stati di fronte alle loro responsabilità, sia storiche che contemporanee».

Cos’è che impedisce di affrontare in maniera sistemica e non emergenziale questo fenomeno? Indubbiamente si possono individuare diversi gradi di violenza, che compongono il continuum che porta al femminicidio: forse il problema sta nel non dare abbastanza importanza e nel non investire sufficienti attenzioni all’inizio della storia?
«Se il femminicidio è stato preso in considerazione così tardi nelle nostre società europee e occidentali, è perché infrange la mitologia dell’uguaglianza di genere su cui molti dei nostri Paesi sono stati ricostruiti dagli anni Settanta in particolare. Sebbene essenziale, come mostra l’esempio spagnolo, la politica repressiva da sola non risolverà il problema, perché l’omicidio individuale è sempre il prodotto di un omicidio collettivo: cioè il fatto di uccidere una donna perché è donna è “preparato” da tutta una serie di atti contro le donne che, anche se non da mettere sullo stesso piano, partecipano tutti alla stessa violenza. Questo è ciò che io chiamo il continuum femminicida. L’unico modo per risolvere questi crimini è affrontare la realtà polimorfica del continuum femminicida (molestie sessuali, cultura dello stupro, incesto, prostituzione coatta, lesbofobia, transfobia, matrimoni precoci e forzati, divieto di aborti, feticidi e infanticidi di massa delle bambine... l’elenco è molto lungo purtroppo). Senza questo verranno messe in atto solo mezze misure, con effetti limitati nel tempo e nello spazio. Il crimine è totale, la consapevolezza dev’esserlo così come la risposta. Questo è uno degli obiettivi del libro: combattere».

Professoressa Romito, come vede la situazione italiana in questo momento? I numeri della violenza non accennano a diminuire.
P. R.:
«Ci sono tanti pezzetti della società italiana che si muovono, ad esempio i corsi universitari sulla violenza contro le donne sono frequentatissimi da ragazzi e ragazze che vogliono capire e attivarsi, ma il punto è che queste occasioni dovrebbero essere istituzionalizzate, non dipendere dalla sensibilità dei singoli: una chiave per affrontare il fenomeno è una formazione seria e non episodica, come previsto dalla Convenzione di Istanbul. Tuttavia, ciò che mi inquieta profondamente è constatare l’adattabilità della violenza patriarcale al tempo e allo spazio: penso al revenge porn e al body shaming che passano attraverso i social media e che dimostrano che c’è una reazione al cambiamento molto forte. Ma penso anche a quanto spesso in Italia accade che giovani uomini si uccidano tra loro, perché uno dei due ha guardato la donna dell’altro, evidentemente considerata un oggetto che si conquista e si possiede».

In che modo quest’opera può contribuire anche in Italia a istituire un approccio nuovo nei confronti di questo fenomeno?
P. R.
: «La prima domanda da porsi è se ci sono in Italia case editrici in grado di raccogliere questa sfida. Lo spazio culturale e politico che le istanze femministe hanno in Francia è molto più ampio che in Italia: basti pensare al MeToo, che in Italia non è praticamente esistito, mentre in Francia ha avuto delle conseguenze, che i responsabili delle violenze stanno pagando».

Il magistrato Fabio Roia ha detto: «Sette donne vittime di violenza su dieci non sanno di subire un reato. Dobbiamo aiutarle a capire che un uomo che agisce attraverso violenza fisica, controllo e distruzione dell’autostima è un uomo violento.»
P. R.:
«Riconoscere la violenza è fondamentale per non legittimarla. Il lavoro preziosissimo e insostituibile dei Centri antiviolenza in parte consiste proprio in questo: nel favorire un percorso di consapevolezza, fondamentale per ripartire e perché il reato non venga reiterato».

Professoressa Taraud, una domanda per concludere: che ruolo potrebbero giocare gli uomini?
C. T.:
«Molti uomini condividono il progetto politico di abbandonare il patriarcato. Il lavoro che dobbiamo svolgere è duplice. La “sorellanza rafforzata”, che la scrittrice maliana Aminata Traoré auspica nella conclusione del libro, è essenziale. Una sorellanza orizzontale ed egualitaria che costituisce una comunità di resistenza delle donne su scala planetaria: è questa comunità di resistenza, che unisce le donne da un capo all’altro del globo, che il libro mette principalmente in evidenza. Ma la sorellanza può anche, in un secondo momento, fare spazio agli uomini di buona volontà, e sono tanti, se accettano di rinunciare ai privilegi maschili e si impegnano nella costruzione di un mondo che faccia spazio alla nostra comune umanità».