Sviluppo sostenibile
Oltre le Fashion Week: non si può parlare di moda senza giustizia sociale e ambientale
Non solo i grandi brand. La sostenibilità non è un lusso e passa attraverso il rispetto del lavoro e dell’ecosistema
Nel 2022 la parola d’ordine delle settimane della moda, fra New York, Milano e Parigi, è stata solo una: sostenibilità. Strausato, travisato, a volte piegato alle logiche del marketing, è un concetto che attraversa etica, ecologia e diritti, nell’intera filiera dell’industria, dalla produzione al consumo.
«Parlare di moda significa parlare di diritti sociali e diritti ambientali. Poteva sembrare strano dieci anni fa, cinque anni fa, adesso non più», afferma Cecilia Frajoli Gualdi, fondatrice insieme a Fabio Pulsinelli del progetto Dress the change, una piattaforma di informazione, la prima nata in Italia già nel 2016, che si rivolge direttamente ai consumatori per aiutarli in una «transizione sostenibile» delle abitudini di acquisto e utilizzo degli indumenti.
Al di là delle tendenze del momento, come il cosiddetto greenwashing, che è ecologia solo di facciata, ciò che distingue davvero cosa è sostenibile da cosa non lo è rimane solo uno, l’assenza di abusi. «È triste pensare a chi compra, come se niente fosse, centinaia di vestiti su siti dove è risaputo che tutto venga realizzato a discapito dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente, quantomeno è paradossale non chiedersi il perché di un costo così basso», continua Frajoli Gualdi.
L’equivoco comune, infatti, è pensare che la produzione sostenibile sia possibile solo nelle case di alta moda, le uniche in cui i costi elevati non incidono sui ricavi finali, avendo già un target disposto a spendere cifre molto alte. Questo automatismo di pensiero, tuttavia, rischia innanzitutto di far credere che i grandi brand siano disposti facilmente a riqualificare la loro produzione in termini di sostenibilità solo perché in possesso dei mezzi economici per farlo.
Certo, esistono gli esempi positivi di Prada e soprattutto di Gucci, che ormai da un paio d’anni ottiene il certificato di sostenibilità Iso 20121 per tutte le sue sfilate, tuttavia si tratta di una realtà ancora lontana, soprattutto perché a mancare è un assetto legislativo che non affidi la sostenibilità alle scelte del singolo marchio. Si continua così a imputare l’intera responsabilità della moda sostenibile soltanto ai consumatori, quando invece il concetto da cui partire si trova al capo opposto della filiera: la trasparenza della produzione.
A tal proposito, Fashion Revolution - oggi il più ampio movimento attivista nel mondo della moda, fondato nel 2013 - redige ogni anno un indice di trasparenza che analizza i 250 più importanti brand esistenti, tra alta moda, multinazionali e aziende tessili.
È dall’indice del 2022, per esempio, che arriva la conferma, per il secondo anno di fila, del percorso di riqualificazione avviato da Ovs, azienda italiana che oltre a essere stata la prima nel nostro Paese ad accogliere, nel 2021, l’appello degli attivisti di Clean Clothes a dismettere gli approvvigionamenti di cotone dalla regione cinese di Xinjiang, dove i lavoratori uiguri erano trattati al pari di schiavi, è tuttora il marchio con l’indice di trasparenza più elevato in tutto il mondo (78 per cento a pari merito con Wesfarmers).
Ciò significa, per esempio, che l’azienda comunica sul proprio sito l’origine dei materiali ma anche i dati sul rispetto dei salari minimi, rendendoli disponibili per il download. Il modello Ovs non è ancora perfetto, ma è una prova di come, indipendentemente dal posizionamento sul mercato, si possa ripensare e rivoluzionare il proprio ruolo nelle questioni di giustizia sociale e ambientale: dall’impiego consapevole di lavoro e materie prime fino alle scelte sugli imballaggi e la costruzione dei negozi.
Il passaggio ancora mancante è l’allineamento fra legislatori, imprenditori e consumatori, affinché l’attivismo si traduca in trasformazioni tangibili e si possa andare oltre le singole politiche dei marchi, per raggiungere anche la piena realizzazione dell’Agenda 2030, ossia il documento redatto nel 2015 dalle Nazioni Unite che racchiude oltre 150 obiettivi di sviluppo sostenibile.
«Il maggiore impatto o cambiamento può venire solo da chi produce di più», riprendendo sempre le parole di Cecilia Frajoli Gualdi, e da chi vende di più, quindi le multinazionali. Realtà come Fashion Revolution e Clean Clothes, che agiscono come intermediari sindacali, facendo pressione sull’industria dall’interno, o strumenti dal basso come Dress the change, che lavorano per la sensibilizzazione quotidiana, possono però accelerare in modo significativo quel cambiamento.