Inchiesta

Profitti alle stelle e manodopera poverissima: ecco le due facce della moda

di Fabio Pavesi e Gloria Riva   4 luglio 2024

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L'Espresso ha analizzato i bilanci dei maggiori brand: secondo l'Istat il settore dovrebbe pagare i dipendenti il 15 per cento del fatturato, ma pochi superano il 7 per cento. E nella filiera lo sfruttamento è troppo spesso una realtà

È Biella la patria dei tessuti di qualità: 800 manifatture e 11 mila addetti producono le stole che si trasformano in abiti di lusso, da ammirare sulle passerelle di Parigi e Milano, da rimirare nelle vetrine sulla 5th Avenue di New York e nel «Quadrilatero della moda». Vista da lontano, la filiera del lusso è una macchina perfetta. Eppure, vista dalle tessiture biellesi, dove hanno casa gioielli di produzione, come le inappuntabili Vitale Barberis Canonico e il Gruppo Piacenza, balza all’occhio la sperequazione fra prezzo dei tessuti e cartellino in vetrina: un abito da uomo viene non meno di duemila euro, un tessuto di qualità ne vale 50 al metro quadrato. Per un vestito intero servono 3,5 metri di stoffa, quindi alle imprese manifatturiere spettano 175 euro, meno del 9% del valore complessivo dell’abito. Si obietterà che anche il confezionamento vuole la sua parte. «Nel Novarese eravamo forti. Ora restano nicchie in Salento e nelle Marche, ma il grosso è stato delocalizzato in Romania, Bulgaria, Polonia, dove tutto costa meno», racconta a L’Espresso Alessandra Ranghetti, sindacalista Uiltec, che però parla anche di un’inversione di tendenza: «I brand stanno riportando a casa filatura e confezionamento, perché la guerra ucraina rallenta e rende meno competitiva la produzione».

 

Bene per l’Italia, male per l’Europa. La moda, purtroppo, è solo all’apparenza paillettes e velluto, e, così come ha un certo fiuto per gli scenari geopolitici, lo ha anche per i ricavi, essendo da sempre uno dei settori più redditizi: solo i giganti dell’hi tech sanno fare meglio, con profitti netti sui fatturati nell’ordine del 20%. L’atout del settore luxury sta proprio nel suo essere un comparto premium price: a qualunque prezzo la moda offrirà i suoi luccicanti oggetti, ci sarà sempre qualcuno (e non per forza solo i ricchissimi) disposto a pagarlo, perché fa status.

 

Torniamo a Biella, dove le manifatture hanno fatto i salti mortali per ridurre all’osso le inefficienze e stare nei preventivi delle grandi griffe, assicurando ai dipendenti stipendi che, per tessitori e orditori di fresca nomina, si aggirano attorno ai 1.500 euro netti (1.350 per i filatori, i meno pagati). L’ecosistema funziona. All’apparenza. «Tanto nessuno controlla. A Biella abbiamo due ispettori del lavoro, che viaggiano in coppia e devono sorvegliare 800 imprese: quanti anni devono passare prima di averle visitate tutte?». Le aziende più virtuose lavorano sulle certificazioni Made in Italy, che costano care e impongono sinergie tra lanifici e manifatture concorrenti. «Se ci sarà giustizia sociale, sarà merito della spinta dal basso», commenta la sindacalista che parla dei giganteschi sforzi della manifattura sana per mettere all’angolo chi fa ricorso a infiniti subappalti. Il riferimento è alle recenti inchieste del Tribunale di Milano, che hanno portato al commissariamento di Alviero Martini, Giorgio Armani Operations e Manufactures Dior, accendendo i riflettori sul lato oscuro del lusso: in vetrina prezzi stellari, ma costi di produzione ai minimi termini, grazie all’uso di subappaltatori che sfruttano la manodopera.

 

 

L’Espresso ha messo in fila i conti delle griffe, unite dal filo rosso dei grandissimi profitti e della manodopera sottopagata. La Manufactures Dior, che a sua volta subappaltava a imprenditori cinesi la fabbricazione dei capi, nel 2023 dichiara incassi per 688 milioni di euro, mentre gli stipendi si sono fermati a 48 milioni: nei fatti solo il 7% sui ricavi totali. L’anno prima, addirittura, incidevano soltanto per il 5%. Siamo ben al di sotto della media settoriale che, dice l’Istat, si attesta al 14-15% del fatturato.

 

Un canovaccio analogo per Giorgio Armani Operations, che raggruppa gli stabilimenti produttivi dell’impero dello stilista piacentino: ha chiuso il 2022 con ricavi a sfiorare i 900 milioni di euro, con un incremento del 33% sull’anno precedente. Vendite in forte progresso, come l’utile operativo salito da 59 a 74 milioni. Tolti i costi degli acquisti di materie prime e per i servizi, il costo del lavoro vale meno del 7% del fatturato. Per i 1.200 dipendenti, la spesa tra salari e contributi è stata di poco più di 62 milioni di euro, in crescita di 3 milioni. Quindi, mentre il fatturato e gli utili salivano a razzo, i salari restavano quasi fermi. La pratica antica di allargare la forbice tra i prezzi di vendita e i costi, soprattutto quelli di chi produce i beni firmati, si riverbera dal braccio industriale di Armani all’intero gruppo. La Giorgio Armani spa ha fatturato nel 2022 oltre 1,5 miliardi di euro, ma il totale dei costi per i lavoratori è di appena cento milioni: cifra che vale poco meno del 7% dell’intero giro d’affari. Tanto per fare un confronto, la spesa per i servizi, tra cui le spese di marketing e di pubblicità, vale da sola tre volte tanto il costo del lavoro: ben 330 milioni per promuovere e vendere al meglio abiti e accessori. A livello di bilancio consolidato, il regno dello stilista siede su un patrimonio netto di 2,4 miliardi, ha in pancia liquidità per oltre un miliardo di euro e ha fatto utili per 213 milioni solo nel 2022.

 

Anche la Alviero Martini è incorsa nell’amministrazione giudiziaria per gli stessi motivi di Armani Operations. Nel 2022 ha fatturato 52 milioni di euro, con costi della produzione per 47 milioni e utili per 3,3 milioni. La voce residuale tra gli oneri di bilancio è proprio il costo del lavoro, che incide per 5,8 milioni. L’azienda spiega a L’Espresso: «I costi della manodopera per la fabbricazione deiprodotti su larga scala sono da ritrovarsi nelle voci di acquisto di prodotti e servizi, e non all’interno dei costi del personale».

 

Non per tutti la sovrastruttura d’immagine vale più della fattura: Brunello Cucinelli, con un fatturato da 1,13 miliardi nel 2023 e utili per 123 milioni, investe il 17,1% dei ricavi nel personale, mentre solo il 6,9% in pubblicità e spese commerciali.

 

Veniamo ora a Prada, l’azienda creata da Patrizio Bertelli e Miuccia Prada e quotata a Hong Kong. La società è un reticolo di aziende che si occupano di tutti gli aspetti del business: dalle linee produttive alla distribuzione, agli show room, al marketing e alla pubblicità, che è il vero motore per la diffusione del brand. Solo in advertising, il gruppo spende ogni anno il 10% dei ricavi. Prada è una vera e propria macchina da soldi: su 4,7 miliardi di fatturato, l’anno scorso ha prodotto utili operativi per oltre un miliardo e utili netti per 671 milioni a livello consolidato. Ciò significa che, spesati tutti i costi, il prezzo di vendita dei suoi prodotti consente un guadagno di oltre il 20%. Il gruppo occupa nel mondo 14 mila dipendenti, con un monte salari di oltre 970 milioni, che vale meno dell’utile operativo prodotto ogni anno. Il costo del lavoro, questa volta, supera il canonico 14% del livello medio come peso sui ricavi. Eppure il bottino grosso lo fanno i due fondatori: Miuccia e consorte hanno guadagnato (a testa) 19 milioni di euro. In due fanno poco più del 5 per cento dell’intero monte salari dei 14 mila dipendenti del gruppo: significa che da soli valgono oltre 270 volte il costo di un loro dipendente.

 

Altro colosso redditizio è Moncler che deve la sua fama ai piumini. Il gruppo quotato a Milano ha prodotto a livello consolidato quasi 3 miliardi di fatturato nel 2023 con un utile operativo per 900 milioni. Ogni 100 euro fatturati, 30 si trasformano in profitti. Il gruppo ha 7.500 dipendenti che costano 364 milioni di euro l’anno. Come si vede, salari e contributi pesano sulle vendite il 12%. Tra i fattori produttivi, l’apporto dei lavoratori sui costi totali è quello meno rilevante. Passiamo ora al duo Dolce&Gabbana, che nel 2023 destina il 12% del volume d’affari ai dipendenti: 157 milioni su 1,24 miliardi di fatturato, mentre la spesa per servizi è a 594 milioni.

 

 

A Loro Piana, il re del cashmere e della lana, i costi del lavoro pesano il 10% sull’intero giro d’affari, che ha superato il miliardo di euro nel 2022. E i gruppi stranieri? È praticamente impossibile paragonarli ai big del lusso italiani, perché (nella maggior parte dei casi) non esplicitano il costo del lavoro nel bilancio economico, come fa Lvmh di Bernard Arnault, a cui fa capo la stessa Dior e che negli anni ha acquisito tanti marchi italiani, come Fendi, Emilio Pucci, Bulgari e proprio Loro Piana.

 

Ancora, l’emiliana Max Mara Fashion Group di Luigi e Ignazio Maramotti, che ha in pancia anche società manifatturiere, come la San Maurizio. La Max Mara conta 5.326 dipendenti (di cui 450 operai). Il valore della produzione è di 1,8 miliardi di euro. I costi sono a 1,5 miliardi, di cui il costo del lavoro pesa per 265 milioni di euro. Max Mara nell’ultimo anno ha generato utili per 308 milioni di euro.

 

Saliamo nell’Olimpo del sistema moda: maison Valentino, che da poco ha accolto un nuovo direttore creativo, Alessandro Michele. Valentino spa conta 1.544 dipendenti (219 operai e 62 dirigenti, gli altri sono colletti bianchi); il costo della forza lavoro è di 124 milioni: il 13,4% dei 923 milioni di euro di fatturato. Sulle condizioni di lavoro delle 90 sarte dell’Haute Couture garantisce Catia Sergianni, sindacalista della Uiltec: «Qui i contratti sono eccellenti, si ragiona di integrazioni salariali e bilanciamento vita-lavoro». Il mondo della moda è così, un poliedro di situazioni, circostanze e sfaccettature, fatto da centinaia di ramificazioni che, percorse al contrario, concorrono alla creazione di un fatturato nazionale del valore complessivo da 111,7 miliardi di euro.