Il libro

L’atto di accusa di Giorgio Agamben all’Italia

di Donatella Di Cesare   22 novembre 2022

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L’ultimo saggio del pensatore è un mosaico di frammenti filosofici che tocca tanti luoghi, dall’India alla Cappadocia. E tanti nomi, da Heidegger a Morante. Ma non risparmia il nostr Paese giudicato distratto, sbadato, smemorato e assente

È uscito negli “Struzzi. Nuova serie”, la collana diretta da Ernesto Franco per Einaudi, il libro di Giorgio Agamben che si intitola “Quel che ho visto, udito, appreso...”. Si tratta di un florilegio di testi brevi, o brevissimi, che hanno il carattere di frammenti filosofici, ma sono al contempo permeati da un timbro poetico, capace di mantenersi alto e cristallino lungo tutte le pagine. «A teatro, ascoltando la Callas, ho capito che, quando scriviamo, la cosa più difficile è sostenere a lungo la mezza voce nel registro più acuto».

 

Il foglio di uno scritto infantile smarrito per sempre, una perdita immemoriale, e una scrittura che si dispiega intorno a quel vuoto, al bianco che segna ogni scrittura, nel tentativo incessante di recuperare il non-pensato, il non-detto. È quasi come un bilancio sul proprio percorso, il testamento di un filosofo che si ferma per lanciare uno sguardo sulla vita passata in un lampo, sulle opportunità avute, su quelle sfuggite. L’ultima parte è dedicata non per caso a “quel che non ho visto, udito, appreso...”.

 

Roma, Parigi, Vienna, Weimar e Buchenwald, le grotte di Ajanta in India, le necropoli della Tuscia, le chiese scavate nella roccia in Cappadocia, Cala Felci, Ponza e Ginostra, i luoghi di Venezia, come gli Alberoni, le Zattere, la Chiesa di San Giacomo da l’Orio, disegnano l’itinerario di Agamben. «Da luoghi che hai amato e che hai dovuto lasciare: se, come il gigante della favola, ci nascondi il cuore, certo diventi invulnerabile, ma correrai il rischio di dover sempre ricordare – cioè tornare al cuore che avevi voluto nascondevi. E di essere, per questo nuovamente vulnerabile». È un itinerario suggestivo e a tratti amaro. Quando, ad esempio, considera il tempo in cui ha vissuto. Che cosa ha appreso? «Dal XX secolo: che certamente gli appartengo e ne sono uscito nel XXI solo per prendere una boccata d’aria. Questa era, però, così irrespirabile, che sono subito tornato indietro – non nel XX secolo, piuttosto in un tempo dentro il tempo, che non sono in grado di situare in una cronologia, ma che è l’unico tempo che ora mi interessi». Questa sorta di anacronia, essere calati nel proprio tempo restando al contempo fuori, è ciò che Agamben spiegava nel suo breve saggio sul significato di “contemporaneo” scrivendo che contemporaneo è colui che in pieno viso riceve il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. Capacità di rispondere alle tenebre dell’ora: si compendia qui la sfida del filosofo.

 

Ma l’amarezza investe il rapporto con l’Italia di questi tempi in una pagina lapidaria: «Dagli italiani miei contemporanei ho preso la distrazione. Attenzione non ne ho trovata». Parla con tono comprensibilmente risentito l’autore di opere filosofiche come “Homo sacer”, tradotte in decine di lingue, lette e discusse ovunque nel mondo, e non solo all’interno delle università, l’autore che non ha avuto mai davvero quel ruolo che gli sarebbe spettato nello spazio pubblico. Non si tratta solo del riconoscimento che dovrebbe essere tributato a un intellettuale raffinato, un pensatore profondo e radicale, capace di aprire nuovi scenari, la voce più significativa della filosofia contemporanea. Il problema riguarda l’Italia, distratta, sbadata, smemorata, incantata e assente. E in questi giorni bisognerebbe chiedersi su quella che viene chiamata, a torto o a ragione, “crisi della sinistra” non derivi anzitutto proprio dalla mancanza di pensiero, dalla ripetizione di stereotipi, come quelli costruiti intorno al termine “liberale” e al concetto di liberalismo. Se non sono state elaborate nuove categorie politiche, indispensabili per interpretare il paesaggio attuale, è certo anche perché ci si è limitati a ripetere stereotipi, senza confrontarsi con la riflessione di Agamben. Distrazione, dunque, che mentre porta al conformismo, è fonte di dissipazione di idee ed energie.

 

Tanti sono anche i nomi, esplicitamente menzionati, o solo sottintesi, dei personaggi che compaiono nelle pagine, altrettanti punti di riferimento per Agamben, maestri, compagni, interlocutori. Dal burattinaio Bruno Leone a Franz Kafka, da Averroè a Erigena, da Elia del Medigo a Ugo da San Vittore, da Platone a Epicuro e Lucrezio, da Gioacchino da Fiore a Bachofen, da Bonnard a Bachelard, da José Bergamin a Costantino Kavafis, da Elsa Morante a Ingeborg Bachmann – per menzionarne solo alcuni. Fedele al non-detto, a quel foglio perduto, Agamben rammemora però il confronto serrato con coloro da cui ha appreso, perché «quando pensiamo il vero, allora la molteplicità delle opinioni si spegne e finalmente a pensare non sono più io».

 

Non manca un richiamo a Martin Heidegger: «A Le Thor, nel 1966, ho visto di notte il cielo trafitto da innumerevoli stelle. E ho promesso di restargli fedele. Nello stesso luogo, in quello stesso anno, ho fatto appena in tempo a afferrare l’ultimo lembo della giacchetta della filosofia occidentale, prima che scomparisse per sempre», così scrive, ricordando il seminario tenuto da Heidegger e rivendicando quel solco in cui il suo pensiero si inscrive. E molte sono le riflessioni sulla filosofia – non solo sul modo di intenderla, ma anche su quei tentativi riusciti di mutarne e ampliarne l’inventario. «Che cosa mi ha insegnato la filosofia? Che essere uomini significa ricordarsi di quando non si era ancora umani, che compito dell’uomo è la memoria del non ancora e del non più umano – del bambino, dell’animale, del divino». E affiora quell’afflato che attraversa tutte le pagine di Agamben: «Ma l’angelo silenzioso che prende ora il posto di Ariele si chiama: Giustizia. Detto in altre parole: la filosofia consiste nel tentativo di un poeta – così arduo che quasi nessuno ci riesce – di far coincidere l’ispirazione con la giustizia».

 

Parole penultime di un filosofo che si accorge forse di non avere eredi – qualsiasi cosa oggi voglia dire la parola impegnativa “eredi” e il verbo vincolante e scomodo “ereditare” – e che con inevitabile rimpianto guarda al suo non detto e al non vissuto, quel limite incerto e labile tra ciò che è riuscito a scrivere e ciò che poteva soltanto tacere. Perché sebbene ciò che si perde è di Dio, si piange incessantemente il perduto.

 

È un libro molto diverso da quelli precedenti, dai saggi filosofici, un testo all’incrocio tra generi diversi, una raccolta di frammenti, schegge poetiche di pensiero, spiragli verso il non-detto, che sono alla fin fine anche un invito a leggere e rileggere la sua opera. Che cosa resta dei luoghi, degli incontri, degli amici, dei maestri in quella vita che sembra già passata in un lampo?

 

«Come la colomba, siamo stati mandati fuori dall’arca per vedere se c’era sulla terra qualcosa di vivo, anche soltanto un ramoscello di ulivo da prendere nel becco – ma non abbiamo trovato nulla. E, tuttavia, nell’arca non abbiamo voluto tornare».