Una metropoli cosmopolita. Un intreccio di lingue e di cultura. Il romanzo di Denise Pardo è una storia che incalza e muta i destini. Una vicenda familiare, un’epopea universale

La scena più commovente (è il caso di usare senza imbarazzo questa parola) del bello e tenero libro “Una casa sul Nilo” di Denise Pardo, in uscita con Neri Pozza, è quando Fanny, la madre dell’autrice, ricevuto in regalo dal marito Sam un pianoforte Steinway - perché la musica aiuta a far fronte alla malinconia - incontra il virtuoso e maestro Ignacy Tiegerman, detto anche “lo Chopin del Cairo”. Siamo nel 1959 nella capitale d’Egitto, perché è quella la città raccontata nel romanzo, a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso e fino al 1961, l’anno dell’abbandono e della partenza verso Roma (un esilio, una cacciata dal Paradiso ma anche un inizio nuovo) della famiglia Pardo.

Tiegerman, ebreo, considerato uno dei più grandi interpreti della musica romantica, da Chopin appunto a Brahms, era nato a Drohobycz, un luogo oggi in Ucraina, fino al 1914 facente parte dell’Impero austro-ungarico, ed è stato a sua volta l’insegnante di piano di Edward Said, intellettuale palestinese, negli ultimi decenni del Novecento il miglior amico di Daniel Barenboim, argentino ma pure israeliano: e insieme hanno fondato il West-East Diwan Orchestra che riunisce giovani musicisti arabi e israeliani. Ecco, tutto si tiene nella vita reale, le coincidenze e la casualità sono la regola e non l’eccezione, le identità delle persone sono molteplici e solo gli stolti possono pensare a un mondo di appartenenze univoche. E sì, la musica aiuta davvero a lenire il lutto. Perché “Una casa sul Nilo”, oltre a tracciare un affresco di una metropoli una volta cosmopolita – con mille contraddizioni- e a ricostruire una vicenda familiare che nella sua apparente singolarità risulta di una valenza universale, è un tentativo di far letteratura per affrontare il dolore e il lutto. E per dire: c’è vita e desiderio dopo la perdita e anzi è la perdita che potenzia il desiderio.

Ma procediamo con ordine. O meglio, con il disordine linguistico, i rumori e gli aspri odori delle strade del Cairo, il fascino di una vita sull’orlo dell’abisso, pensando invece che il presente durerà per eterno. E allora, negli anni Quaranta c’era una città sul Nilo. Il mondo era in guerra, la seconda guerra mondiale. Le truppe delle potenze dell’Asse, i tedeschi comandati dal generale Rommel, assieme a quelle italiane si stavano avvicinando alla città. Gli abitanti avevano paura. Tutti gli abitanti? No. Solo, probabilmente, lo strato cosmopolita, le élite europee così come i loro amici dell’alta borghesia locale. Il timore della fine (ma sempre rimandata, finché non arriva davvero), gioca un certo ruolo nella narrazione. La famiglia dell’autrice è più che benestante e fa parte di quella élite che si incontra nelle sale dei grandi alberghi sul Nilo, nei circoli esclusivi come l’Automobile Club o l’Auberge des Pyramides. Quei luoghi sembrano sospesi nel tempo e un po’ nello spazio. Siamo nel cuore del Medio Oriente ma si parlano tante lingue che non sono l’arabo e ci si veste come a Londra o a Parigi. Si è detto che la protagonista del romanzo è Fanny, la madre di Denise. Ma c’è una seconda protagonista, in realtà paritaria a Fanny. È la nonna, chiamata in casa Bobe. Bobe vuol dire in yiddish, nonna appunto. Ecco, nel mondo scintillante, francofono e anglofono e che frequenta la Corte reale (ci torneremo) è presente la lingua degli ultimi, dei più umili fra gli europei, degli ebrei dell’Est che parlano lo yiddish. In casa Pardo, al Cairo (e la saga narrata è in gran parte un racconto al femminile) le donne usavano quell’idioma, e l’autrice ne riproduce i modi, le frasi, le battute, in originale. E così non solo è fedele alla memoria ma riporta l’atmosfera di una lingua che trasmette una certa inquietudine e ansia, anche quando si è all’apice della piramide sociale. La nonna viene da Czernowitz, città austroungarica (patria peraltro di Paul Celan), luogo in cui di lingue se ne parlavano almeno quattro e che era una specie di piccola Vienna (oggi fa parte dell’Ucraina). Da quella che oggi è l’Ucraina, ossia da Odessa viene pure il nonno di Denise, fuggito dai pogrom. Il Cairo è quindi un rifugio dall’antisemitismo europeo. Così appare, salvo poi espellere gli ebrei accolti (ci torneremo). Fanny è una ragazza bellissima. La sposa Sam, un ebreo che viene dai luoghi dell’ex Impero ottomano, ha la cittadinanza italiana, commercia in marmi di Carrara, fa affari con i ricchi signori dell’Arabia saudita.

 

Il racconto delle feste, dei vestiti, dei cibi – dei modi di cucinare e mangiare si parla molto - non solo restituisce in chiave spesso ironica e senza idealizzare il passato coloniale il mondo che fu ma crea anche un universo metaforico, da non prendere alla lettera ma appunto quasi come una bella favola, dove ci sono le zie nel ruolo delle principesse, e una ragazza inglese che sbaglia amori e uomo. E come in tutte le favole c’è un re, Faruk. Ecco, non siamo però solo in una favola e così le storie diventano Storia.

Il re Faruk è un uomo corrotto. Il monarca si dà agli affari, al poker (un gioco di cui il libro parla molto), alle belle donne, ma trascura i bisogni del popolo. Nel Paese cresce lo scontento. E così, nasce un gruppo di ufficiali che rovesciano il potere monarchico e instaurano un regime repubblicano e nazionalista. Stiamo parlando degli uomini guidati da Gamal Abdel Nasser. L’atmosfera del Cairo cambia. Ci sono manifestazioni di ostilità nei confronti degli stranieri. In particolare insicuri si sentono gli ebrei, dato che alcuni vengono accusati di essere spie di Israele. La dolce vita continua ma la sensazione di precarietà si fa sempre più forte. La cultura cosmopolita, in fondo coloniale, niente può contro quella in lingua araba, incarnata (per fare un solo esempio) dalla meravigliosa cantante Um Kulthum, la vera regina dei cuori dell’intero Paese e della Regione. Comincia un mesto esodo. Le amiche di Fanny partono e Sam le regala il pianoforte. Poi, un giorno, un amico di Sam che fa parte del gruppo dei nazionalisti al potere (ma innamorato della ragazza inglese, amica di Fanny di cui si parlava prima, e quindi scisso fra sentimenti intimi e dovere patriottico) avverte la famiglia: «È meglio che ve ne andiate via». E così, nel settembre 1961, la famiglia Pardo, finisce a Roma. Bobe, la nonna, nell’albergo in cui abitano appena arrivati in Italia, apre la finestra ed entra “un’aria leggera”. Ma la Luna del Cairo manca.

 

Avvertenza: Denise Pardo è stata per anni collega all’Espresso di chi scrive. Ma l’amicizia (si spera) non ha influito sul giudizio sul libro.