La bellezza e la trascuratezza. L’ospitalità e l’ostilità. L’accoglienza e il razzismo. “Racconti romani” della scrittrice premio Pulitzer mette al centro la Capitale. E le sue contraddizioni

Mentre mi stavo innamorando di Roma, il fioraio bengalese del mio quartiere mi ha raccontato di essere stato picchiato per motivi razziali. Il mio rapporto con la città è nato dentro a questa contraddizione: un amore che non volevo fermare arrivava intrecciato a una violenza che non potevo negare». Jhumpa Lahiri, scrittrice statunitense di ascendenza indiana, premio Pulitzer e romana d’adozione da più di dieci anni, mi spiazza così, con voce pacata e parole esplosive, in una conversazione che ha per pretesto il suo libro “Racconti romani” (Guanda).

«La prima storia riprende proprio ciò che mi disse quell’uomo al mio arrivo, facendomi sentire come quelle persone che vanno in vacanza in posti meravigliosi dove però per chi ci abita la vita è dura. Non puoi negare che la Grecia sia stupenda, ma nemmeno che chi ci vive soffra per condizioni economiche di cui anche tu, turista di massa, sei complice col tuo stare bene. Io ero così davanti a lui, in apparenza dentro la sua stessa realtà, ma anche fuori, perché non mi toccava personalmente. Sin da allora volevo stabilire una linea di comunicazione con quella Roma silenziosa, anzi silenziata, e per questo il protagonista del mio racconto è muto: la violenza gli ha tolto le parole». In queste storie brevi il razzismo è molto presente. «Sì, ma il tema del libro è piuttosto la diversità e la sua non risolvibilità, una contraddizione che mi accompagna da sempre e che non credo mi abbandonerà». Negli Usa del melting pot, Lahiri bambina desiderava la divisa scolastica che rendeva tutti uguali, mentre sua madre non ha mai dismesso gli abiti indiani, rifiutando il mimetismo culturale. La convivenza di questi due atteggiamenti era un problema? «Lo era. Quando mettevo i jeans mia madre alzava gli occhi al cielo e io sapevo che pensava: devo sopportarlo perché siamo in questo Paese maledetto, ma la mia Jhumpa è l’altra, non questa ragazza travestita da americana. Quando venivano a trovarci gli amici indiani, dovevo vestirmi in modo tradizionale. Oggi mi rendo conto che mia madre aveva solo paura di perdermi e di perdere se stessa in una cultura così distante dal suo mondo di partenza».

 

Durante la conversazione Jhumpa Lahiri è vestita come una regina di Saba d’occidente, elegante con poco, con quel tipo di bellezza ieratica che ogni volta che togli un orpello risplende di più, ma è evidente che il rapporto con la rappresentazione di sé non deve essere sempre stato così risolto. L’abbigliamento nei suoi racconti è marcatore di identità e catalizzatore di insofferenza culturale. Un giorno qui saranno tutti vestiti così, si sente dire con sprezzo rassegnato la protagonista velata di una delle storie. «Quanto conti l’abbigliamento l’ho imparato a mie spese anni fa in vacanza con un’amica più anziana, quando una sua conoscente mi chiese da quanto tempo fossi in Italia. Aveva dedotto in automatico che fossi la badante perché ero in tuta e avevo la pelle più scura della loro. In Italia molti non si aspettano che le persone di un’etnia marginalizzata possano appartenere alla loro stessa classe sociale».

 

Quanto sia vero lo stiamo imparando col caso Soumahoro, dove - a prescindere dalle circostanze - l’enfasi mediatica sulle borse firmate di sua moglie rivela un pensiero insieme razzista e classista: il povero per essere simpatico deve restare povero e la donna nera povera non può superare la sua condizione fino a poter indossare la stessa borsa Vuitton della donna bianca ricca che l’ha aiutata, oppure salta il patto della solidarietà pelosa.

 

«È vero anche il contrario: se sono vestita con segni che rivelano che sono benestante, ma mi rivolgo in bengalese all’uomo al banchetto del mercato, gli genero disorientamento, si chiede chi sono, perché gli appaio così. La tensione della diversità e del pregiudizio scende solo quando ci si parla. La chiave di questa contraddizione ce l’hanno le seconde generazioni, sono loro il passaggio di sintesi. Quell’essere una cosa e anche l’altra (e fino in fondo nessuna delle due) ti fa vivere divisa, io sono vissuta così, ma tra quindici anni vorrei vedere questa città pervasa dalle seconde generazioni, per capire se si infileranno nel branco, cercando di scomparirvi omologandosi, o se riusciranno a ibridarla come sono ibridi loro». I personaggi dei racconti non hanno il nome proprio, se non uno che si fa chiamare Dante Alighieri per giustificare una vena poetica, e il tuo stesso nome – Jhumpa – è solo una parte del lunghissimo nome di nascita che ti hanno dato i tuoi genitori. Da dove viene questa scelta di non nominare o usare nomi sostitutivi? «I nomi possono essere il primo elemento del disagio culturale. Nel mio secondo libro (Ndr. “L’omonimo”) parlo del peso dei nomi che dobbiamo ereditare, dove il protagonista si chiama Gogol, che è un nome russo, ma lui non è russo e quindi subisce un cortocircuito identitario che lo fa soffrire. C’è di mezzo la mia esperienza, ovviamente. In Usa all’appello scolastico ogni volta che l’insegnante arrivava al mio nome volevo morire, perché non riuscivano a dirlo correttamente e la mia diversità era ribadita ogni giorno, unita alla violenza di non voler imparare la giusta pronuncia. Arrivavano le Sharon, le Jennifer, le Marion e poi io, la straniera, che imprecavo contro i miei genitori perché mi avevano dato un nome che mi avrebbe fatta rimanere un’estranea per sempre. Era un processo che avevo già visto vivere a mia madre, che si chiama Tòpoti, nome semplice che però negli Stati Uniti nessuno riusciva a pronunciare. Stanca di correggere ogni volta, si è arresa e ha detto: “chiamatemi Tìa”, il suo nome informale, così lei per il suo mondo americano è Tìa, dentro casa e per gli amici è Tòpoti. Due nomi, ma anche due persone. A volte rifletto sul fatto che Tòpoti per analogia di suono è simile alla parola greca tìpota, che vuol dire niente. Se nessuno ti ritiene così importante da imparare il tuo nome, ti sta dicendo che è questo che sei per lui: niente». Lahiri, che oltre che scrittrice è docente alla Columbia University (dopo Princeton), ha una famiglia cosmopolita e multilingue, dove la questione dell’identità, tutt’altro che superata, è però troppo complessa per essere risolta con l’adesione agli stereotipi culturali. «Con mio marito abbiamo due figli di colori leggermente diversi e qui in Italia il maschio si è sempre sentito dire “tu potresti essere italiano”, come se fosse un complimento. Italiano non vuol dire niente, Roma è un flusso di gente sin dalla sua fondazione, è sorta senza confini proprio per poter creare il popolo romano che in forma autoctona non esisteva, ma questo sentirsi ripetere sin da piccoli chi poteva essere scambiato per italiano e chi no introduceva nelle loro teste una scala di valore: uno poteva rilassarsi e pensare “sono stato accettato”, l’altra no. Anche se quella distinzione vale solo in Italia, non è una dinamica irrilevante per chi come noi ci vive da dieci anni. Personalmente la sperimento ancora come una violenza. Se andiamo a una festa e ci si scambiano strette di mano, il mio nome suscita cortesia, quello di mio marito Alberto scatena familiarità, perché suona italiano e lui è bianco, ma mio marito è spagnolo. Mio figlio Octavio diventa sistematicamente Ottavio, che è un modo per dire: semplificando il tuo nome ti rendiamo più nostro. Lui giustamente quella “c” la rivendica. Mia figlia Noor, con quel nome persiano, convive con più fatica col pregiudizio che la vorrebbe eterna straniera. La nostra famiglia sperimenta queste cose tutti i giorni, nonostante per me patria e identità non significhino niente e abbia cercato di crescere i miei figli nello stesso modo. Roma per anni mi è piaciuta anche per questo: è nata luogo di tutti e non mi sono mai sentita espatriata».

 

È ancora vero, dopo dieci anni? Con l’avvento del sovranismo al governo c’è una forte enfasi sull’italianità, prima gli italiani, cosa sia e cosa non sia italiano. In che modo l’italiana Jhumpa Lahiri si sente ancora cittadina di un Paese che ha bisogno di escludere per sentirsi se stesso? «Il clima è cambiato. C’è una sovrarappresentazione dell’italianità, e io - che insieme a questo posto ho scelto di abitare anche la sua lingua - mi chiedo: chi è di questo posto? Io qui conosco solo persone che vengono da fuori Roma e per me è questo arrivare di continuo da un “fuori” l’essenza della romanità. Anche questo mio gesto di scrivere in italiano, creando una versione linguistica del passaggio culturale che ho fatto venendo qui, mi spinge a dire che io non sono di questo posto, ma anche sì. Per me è stato vero in ciascuno dei luoghi che ho abitato, ma a Roma è più vero, perché me la sono scelta». In questo libro di racconti l’Italia viene fuori come un Paese incapace di rapportarsi serenamente alla diversità, che è sempre minaccia e mai ricchezza e potenzialità di incontro. Non hai paura che ti dicano che vieni da fuori e ti permetti di criticare un Paese che non è il tuo? «Il punto è che in realtà è il mio, qualunque cosa significhi questo aggettivo possessivo. I turisti possono dire quanto è bella Roma, ma solo gli abitanti possono dire quanto è brutta senza che significhi non amarla». Sorride e mi rendo conto che nella conversazione lo ha fatto pochissimo. Dovevamo parlare di un libro, ma quando un libro parla così duramente di noi è difficile essere lievi. «Sai cosa mi offende? Quando mi presentano dicendo: “Questa è Jhumpa Lahiri e scrive nella nostra lingua”. Nessuno a New York direbbe che chi parla inglese utilizza la loro lingua. La lingua non è di chi la usa?». Non ho una buona risposta, non ancora.

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