Rivoluzione di parole
Chiamami col mio nome: adulti smettete di ignorare la rivoluzione linguistica dell’inclusione
Dalle sigle sull’identità di genere ai trend linguistici su Tik Tok, c’è aria di rinnovamento nell’italiano. Per raccontare meglio scelte di vita. E nuovi modi di interpretare il mondo. Colloquio con Beatrice Cristalli e Vera Gheno
L’uguaglianza è il diritto alla diversità. Ma il valore della diversità si comprende a fondo solo se, invece di intenderla in modo comparativo, la consideriamo come sinonimo di varietà. Vera Gheno, sociolinguista, autrice di numerosi libri tra cui “Chiamami così” (Il Margine) e “Le ragioni del dubbio” (Einaudi), insiste sulla varietà come stato naturale del mondo in cui viviamo. La linguista Beatrice Cristalli, con il suo “Parla bene, pensa bene. Piccolo dizionario delle identità” (Bompiani), sembra darne una dimostrazione concreta muovendosi tra le parole che nell’italiano di oggi registrano quella varietà. Una società che ambisce all’inclusione non può prescindere dall’educazione alla varietà anche nel campo dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale e affettivo. Una cultura davvero democratica non può che partire dalla scuola e dal confronto costante tra le generazioni.
Agender, cisgender, demisessuale, cross-dressing, poliamoroso, queer… Queste parole attestano un bisogno, non solo individuale, ma direi sociale e dunque politico. Perché la discussione intorno alla fluidità è esplosa proprio in questi anni? Sono state le persone più giovani ad avviarla?
Beatrice Cristalli: «Innanzitutto questi termini non sono termini “nuovi”, come di solito viene comunicato dai media. Non sono i giovani che li hanno creati. I giovani hanno interpretato in modo più semplice le realtà che stanno dietro a queste parole: hanno accolto altre prospettive di vita. I social hanno avuto un grande ruolo nella divulgazione e nella diffusione di questi termini. Pensiamo alla funzione di Instagram che consente di scegliere il proprio pronome di presentazione: negli Stati Uniti, per esempio, le persone non binarie possono scegliere they/them. La generazione Z e quella Alfa, ancora più giovane, non percepiscono la diversità come la percepivo io da piccola. Pubblicità, cinematografia e social diffondono più possibilità di rappresentazione. Ragazze e ragazzi sono molto avanti, perché partecipano fin da subito a una nuova narrazione. Le “etichette”, però, non sono una moda, non sono da giovani: viviamo in un’epoca in cui le varie dimensioni esistenziali sono venute a galla e c’è stata la necessità di nominarle».
Vera Gheno: «Secondo me ci sono due elementi strutturali del presente che hanno favorito la coscienza, o se vogliamo l’autoanalisi dal punto di vista dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale: internet e la globalizzazione. Oggi questo restringersi del mondo e, al contempo, questo ampliarsi delle possibilità grazie a internet, fa sì che siamo costantemente a contatto con delle diversità di cui neanche sapevamo l’esistenza. Noi così forti della nostra cultura occidentale, bianca, etero cisnormativa, fino a poco tempo fa non sapevamo quasi nulla dell’esistenza di altri generi e orientamenti nelle civiltà degli altri continenti. In Brasile il transgenderismo è strutturale alla società, nelle Filippine anche, tra i nativi d’America esistono le persone two spirits, che vengono abitate nel corso della loro vita da spirito maschile o femminile. Siamo ossessionati dalla nostra visione del mondo, quando invece la grande necessità del presente è relativizzare il punto di vista».
Tutto questo però mi sembra stia creando una dialettica più profonda tra generazioni.
V.G: «Non è che le persone più giovani siano più fluide di noi: agiscono con un orizzonte cognitivo diverso da quello che per esempio avevo io da ragazza. Oggi l’identità di genere e l’orientamento sessuale e affettivo assomiglia a un ventaglio di possibilità. È chiaro che siamo in un momento di passaggio, in cui si assiste a un’iper prolificazione delle “etichette” ed è abbastanza normale in una situazione iniziale di riconfigurazione mentale e cognitiva. La grande differenza rispetto al passato è che le etichette hanno il pregio di essere auto-determinate, rispetto a una lunga tradizione di etichette etero-determinate. Un tempo gli omosessuali venivano definiti dalla cultura dominante “invertiti”, per esempio. Oggi, invece, queste “etichette” le persone se le scelgono per sé».
B.C.: «Abbiamo una visione della parola molto statica, in questo una grande responsabilità ce l’ha il mondo dell’educazione. La lingua non viene decisa dall’alto: sono i fenomeni e la complessità a determinare l’emersione di parole che ci orientano e permettono di dare voce ad altre persone. Le parole che usiamo hanno sempre dietro delle persone. Ogni etichetta nasce dall’esigenza di stare meglio con sé stessi: ci aiuta a conoscerci più in profondità e in relazione agli altri. Le persone adulte in questo momento, invece, non riescono “riconfigurare il campo del pensabile”, come dice il filosofo Francois Jullien. L’incomunicabilità e lo iato tra le generazioni passa inevitabilmente attraverso le parole, perché le parole hanno una storia: riguardano l’atteggiamento nei confronti nel mondo, vale a dire come interpretiamo noi e gli altri».
Per una società più inclusiva e solidale è necessaria un’educazione alla diversità. Quali materie dovrebbero essere inserite nei programmi e come dovrebbero essere ripensati i testi scolastici?
B.C.: «Due anni fa ho curato un volume di geostoria al cui interno c’erano rubriche dedicate a importanti figure femminili. Ogni volta che però dovevo editare i testi, mi sembrava che quei box o quelle rubriche fossero una forma di discriminazione nei confronti delle donne. Oggi a livello editoriale si pone molta attenzione all’aggiornamento di tutto l’immaginario collettivo, soprattutto nei testi per la scuola primaria. La migliore proposta è quella promossa dalla pedagoga Irene Biemmi, ma è un progetto in corso. Spesso si trovano ancora nei testi le immagini del papà che torna dal lavoro con la valigetta e la mamma che sta stirando. L’educazione deve essere al passo con i cambiamenti. Questo mette l’editoria scolastica in forte crisi su quali forme utilizzare (ancora sono escluse dai testi scolastici la schwa, la chiocciola o l’asterisco); tuttavia a livello redazionale è già in atto una fortissima attenzione alla perifrasi che non promuova una visione binaria del mondo. È un processo di aggiornamento molto lento di cui si vedranno i risultati tra dieci anni».
V.G.: «Di fronte a una società più complessa si deve insegnare come funziona il sistema lingua, come si modifica, che cosa apportano cognitivamente le parole… Nell’educazione mancano prima di tutto le competenze metalinguistiche. Insieme a Federico Faloppa, Fabrizio Acanfora e Lorenza Alessandri sto lavorando a una grammatica per il biennio delle superiori che uscirà per Feltrinelli. Stiamo facendo un grande lavoro di riformulazione degli esercizi. Se scrivo, per esempio “Mamma Fatima porta in tavola il cous cous” o se inserisco persone con disabilità nell’apparato iconografico abituo i ragazzi alla diversità. È molto difficile conciliare tutte le esigenze. Acanfora, che è un esperto di accessibilità e inclusione, ci sta aiutando molto in questo senso: i testi dovranno già essere pensati anche per i bes e i dsa, senza box a parte. L’idea di creare dei testi in cui il diverso non è nel boxino ma fa organicamente parte del libro è davvero la nuova frontiera. È la rappresentazione di una varietà. È importante farlo fin dalla scuola perché è lì che si crea la coscienza sociale, etica e cognitiva».
Se le nuove generazioni hanno già un atteggiamento più naturalmente inclusivo, chi altro deve essere educato alla diversità?
V.G.: «Il problema è che prima di pensare a una scuola democratica bisognerebbe pensare all’educazione di chi insegna nella scuola democratica. C’è un gap generazionale strutturale nella scuola, in questo momento però è ancora più ampio perché sono arrivati i nuovi media. Se continuiamo a misurare le competenze delle nuove generazioni su quello che era corretto per noi, ci perdiamo un grosso pezzo di complessità».
B.C.: «È per questo che chi insegna non può prescindere dal conoscere il digitale, non può non conoscere il linguaggio generazionale, cosa veicolano le immagini, quali sono i trend linguistici su Tik Tok: tutte cose necessarie per entrare in contatto con nuovi modi di interpretare il mondo. Il problema dunque sono gli adulti, le figure di riferimento: i professori ma anche i genitori. Oggi c’è una profonda incomprensione dell’adolescenza. Le ultime generazioni viaggiano a una velocità tale che anch’io, sorella maggiore Millennial, se non studiassi giornalmente alcuni ambiti, farei fatica a capire. Il problema non è il digitale, è l’alfabetizzazione digitale che gli adulti non hanno. Bisogna avere la consapevolezza che tutti noi viviamo nell’on life, in una forma di ibridismo. I docenti che promuovono le classi senza cellulari non lo hanno ancora accettato: per me questo è un grosso limite all’educazione».
V.G.: «Bruno Mastroianni e io lo dicevamo in “Tienilo acceso” nel 2018 (Longanesi). Guardavamo al grande fraintendimento per cui educazione digitale volesse dire educazione all’uso del mezzo, che la soluzione fosse togliere i cellulari invece che integrarli nella didattica nel modo più intelligente».
Come si avvia questo cambiamento?
B.C.: «I ragazzi hanno bisogno di fiducia. Si deve conoscere i mezzi, si deve conoscere il loro mondo ed esserne incuriositi. Chi porta ancora “A Silvia” nei programmi come vent’anni fa, senza sapere come portarla oggi, con quali strumenti, si perde una fetta importante di giovani».
V.G.: «Lavoro con un insegnante che propone compiti alternativi. Per esempio, un’interrogazione di storia come un brano trap: scrivi un brano trap sulle invasioni barbariche. L’aggiornamento richiede tempo, cosa che spesso i docenti non hanno perché oberati dalla burocrazia. Si dovrebbe mettere gli insegnanti nelle condizioni anche economiche e sociali per poter seguire al meglio la contemporaneità».
Quella della fluidità è la prima grande rivoluzione culturale del millennio?
V.G.: «Non è una vera rivoluzione. La cosa c’era già, forse ci siamo resi conto solo ora di questa complessità».
B.C.: «Quando si parla di giovani, l’accezione di fluidità ha qualcosa di negativo per gli adulti. In realtà, la fluidità riguarda tutti, solo che gli adulti hanno difficoltà ad accettarlo».