Nasceva cent’anni fa lo scrittore carismatico e rivoluzionario docente. Profeta di libertà, di creatività. Ideatore della favola dell’uccellino più famoso della letteratura per ragazzi. E di un’idea di scuola decisamente attuale

C’è un uccellino, un po’ birichino, che si sporge dal nido e grida: «Cipì, cipì! Voglio uscire di qui!». Così inizia la favola dell’uccellino più famoso della letteratura per ragazzi (che poi, quando è di qualità, è “letteratura” e basta). L’ha scritta un maestro insieme ai suoi alunni e si chiama Cipì, come il suo protagonista, un pennuto intraprendente e assai curioso che non vede l’ora di volare fuori dal nido. Una storia che è nata tra i banchi della piccola scuola di Vho di Piadena nel 1972 e da lì ha spiccato il volo proprio come il suo personaggio, accompagnando l’infanzia di tanti bambini. Perché sono loro i veri autori della storia, di cui hanno anche disegnato le illustrazioni che fin dalla prima edizione corredano il testo.

Ma come ha fatto quel maestro a insegnar loro a scrivere così bene? Semplice: si è affacciato alla finestra della classe e insieme a loro si è messo a guardare il mondo fuori. Un nido, degli uccellini, un gatto, un gufo, la neve, insomma la vita com’è che si trasforma in storia. Quello che fa ogni scrittore, d’altra parte.

Così insegnava Mario Lodi, di cui il 17 febbraio ricorre il centenario dalla nascita, avvenuta a Piadena (in provincia di Cremona) nel 1922. Tante sono le iniziative per ricordarlo (raccolte sul sito www.centenariomariolodi.it), ma lui questo compleanno secolare avrebbe voluto certamente festeggiarlo in classe, in mezzo ai suoi simili: i bambini. Lodi infatti insegnava osservando i suoi alunni, li ascoltava e li aiutava a esprimere le proprie idee, perché era convinto che quei piccoli studenti, ancorché giovanissimi, non fossero dei fogli bianchi su cui scrivere un elenco di conoscenze (leggere, scrivere e far di conto) ma dei meravigliosi dipinti, ciascuno unico per i propri colori e i propri tratti. Proprio come l’uccellino Cipì, ciascun bambino ha desiderio di saltar fuori dal nido per esplorare il mondo: compito del docente è aiutarlo a prendere il volo. E in questo percorso di auto-apprendimento il maestro e il bambino si scambiano continuamente di posto, perché, in ogni relazione pedagogica riuscita, a imparare si è sempre in due. Ed è importante e necessario ricordarlo oggi, in un’epoca in cui essere insegnante non è affatto semplice. La “lezione frontale” viene bollata come una pratica anacronistica e quasi illegale, la burocrazia digitale fatta di piattaforme e applicazioni si va a sommare a quella analogica, i presidi appaiono a volte come manager assetati di iscrizioni, gli studenti ritengono le prove scritte di fine ciclo come pratiche inique e vessatorie e i genitori si sentono sovente in diritto di intervenire su programmi, metodi e soprattutto valutazioni dei figli, sempre troppo basse rispetto al valore indiscusso dei loro pargoli. E poi: è ancora possibile insegnare, nell’era dei social? Se qualsiasi conoscenza o competenza si può rimediare agevolmente sul web o seguendo un tutorial di pochi minuti, se i docenti digitali imperversano in rete guadagnando milioni di “like”, ha davvero senso tutto quel trambusto di svegliarsi alle 7 del mattino, correre a scuola con uno zaino pieno di libri sulle spalle, dimorare per sei lunghe ore in un banchetto striminzito, rischiare il bullismo, infilarsi di nuovo in un autobus e poi tornare a casa? Un tempo la conoscenza era detenuta da pochi e a loro era affidato il compito della disseminazione. Ma oggi l’accessibilità del sapere segna davvero la fine del “maestro”? Mario Lodi, uno che ha messo la scuola al centro della sua vita, direbbe di no.

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Giovane antifascista, dopo l’esperienza della guerra, Lodi ottiene nel 1948 il suo primo incarico come maestro e scopre che la classe è il suo mondo: la rivoluzione che ha nel cuore e nella mente può partire proprio da lì. Negli anni successivi viene in contatto con il Movimento di Cooperazione Educativa e si avvicina alle teorie pedagogiche di Célestin Freinet, che mettono in crisi l’idea di scuola trasmissiva di nozioni in favore di un modello alternativo, basato sulla libertà espressiva, sull’osservazione del discente, sulla ricerca sul campo e sulla creazione di storie. Nel 1956 ottiene il trasferimento alla scuola elementare di Vho di Piadena, suo paese natale, e qui, in ventidue anni di insegnamento, mette in pratica ogni giorno il suo metodo che racconta, nel 1972, in una sorta di diario di viaggio del suo lavoro di maestro: “Il paese sbagliato”, vincitore del premio Viareggio, che esce ora in una nuova edizione da Einaudi proprio in occasione del centenario con una bella introduzione di Franco Lorenzoni.

Vita e scuola per il maestro sono la stessa cosa, non c’è alcun grado di separazione tra il Lodi insegnante, lo scrittore e l’uomo. Parliamo evidentemente di tempi in cui fare scuola era fare politica, e il fatto di trovarsi ogni giorno a contatto con degli studenti (piccolissimi, piccoli, medi e grandi) era di per sé un modo per intervenire, per cambiare, per orientare il presente. E d’altra parte la scuola è l’unica finestra sul futuro di cui possiamo disporre. Sedere in cattedra significa avere una visione privilegiata e di prima mano su quel futuro, vedere in anteprima il film di quello che saremo. Fuori da ogni retorica, leggere Mario Lodi oggi e ripercorrerne il pensiero serve a riportare il discorso sull’apprendimento al centro del dibattito “politico”, inteso come sinonimo di civico, al di là degli episodici spot elettorali con cui il potere (qualsiasi sia la casacca) cerca ciclicamente di intitolarsi riforme e innovazioni che non riescono, a quanto pare, a infilare le dita nei veri problemi. Allo stesso modo, durante le situazioni emergenziali la scuola diventa un tema caldo, che però scotta e brucia come una vampata passeggera. Mai come negli ultimi due anni si è parlato di scuola: classi pollaio, doppi turni, lezioni frontali, didattica innovativa, inclusione, dati Invalsi, cattedre vuote, banchi a rotelle, medicina scolastica, edilizia insufficiente. E, dopo ogni fiammata, di questo dibattito così acceso sono rimaste solo le ceneri. La lezione di Mario Lodi ci riporta a un tempo in cui la scuola era una questione sociale, una questione culturale e una questione politica. Un tempo in cui imparare a insegnare era una sfida che appassionava e su cui ci si scontrava, anche. In cui la rivoluzione partiva dal basso, o meglio dal primo gradino dell’istruzione: la scuola primaria che all’epoca aveva ancora l’innocenza di definirsi “elementare”. I maestri si chiamavano Gianni Rodari, Mario Lodi, Alberto Manzi, e prima di loro c’era stata un’altra maestra a segnare il cammino della pedagogia: Maria Montessori. Tempi in cui scrivere una “Lettera a una professoressa” (1967) era un gesto sovversivo, come ricorda l’esperienza di Don Milani e dei ragazzi della scuola di Barbiana, perché significava prendere parola contro un sistema autoritario in cui inclusione e pari opportunità erano lontane chimere. Non a caso l’esperienza del parroco di Barbiana e quella del maestro di Vho si collocano a ridosso del Sessantotto, quel movimento ancora tutto da studiare che ha avuto però il merito indiscusso di smontare molte ingiustizie della scuola e di inaugurare un decennio in cui si realizzarono le più importanti riforme del dopoguerra: dall’istituzione del tempo pieno, alla creazione degli Organi collegiali che dal 1974 resero più democratica la vita scolastica allargandola alla partecipazione di genitori, docenti e alunni, fino all’apertura delle classi, nel 1977, ai bambini portatori di disabilità.

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Che cosa resta, oggi, di quella grande stagione di riforme? Qual è il male oscuro della scuola? In quale piega del tempo si è arenato il ruolo formativo del docente che da guida carismatica si è ridotto spesso a essere considerato un fessacchiotto sottopagato a tempo indeterminato?

Mario Lodi direbbe forse che la risposta a queste domande è già scritta nella Costituzione, che non a caso metteva spesso al centro delle sue lezioni con i bambini, «non per leggerla, ma per viverla, in aula, a sei anni». Ed è da lì che la scuola dovrebbe ripartire, da quel ruolo “politico”, che permette ai singoli (alunni, genitori, docenti, dirigenti) di farsi comunità. Una scuola capace di parlare di metodi e contenuti piuttosto che di crediti e alternanza. Una scuola meno performativa e più esplorativa, in cui ciascuno può scoprire chi è e non come deve essere. Una scuola disposta a firmare un “armistizio” sulla guerra per l’offerta formativa più ricca, e che rinunci alla triste fiera degli open day in cui ogni istituto si imbelletta per fare il pieno di iscrizioni e per sfornare, a fine anno, tutti promossi.

Una scuola in cui si insegni agli alunni anche a cadere: come per il piccolo Cipì. Incitarli a spiccare il volo ma spiegare anche che una prova da superare, un brutto voto, una bocciatura non sono un fallimento personale, ma un incidente di percorso.

Il maestro deve essere maestro di volo, una cosa che nessun tutorial potrà mai insegnare.