Teatro e impegno politico

Registi e lavoratori insieme nella lotta, la classe operaia va sul palco

di Francesca De Sanctis   14 febbraio 2022

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In principio furono gli anni ’70. Quando Dario Fo e altri recitavano nelle fabbriche occupate. Ora i drammaturghi riaccendono i riflettori sul lavoro. Per indagare le nuove ingiustizie

Artisti e operai, fabbriche e teatri. Due mondi distanti, così apparentemente diversi da aver interrotto negli ultimi anni (quasi) ogni comunicazione. Sono ormai lontanissimi i tempi in cui Dario Fo recitava nelle Case del popolo e nelle fabbriche occupate, incontrava i lavoratori e interveniva nelle questioni politiche e civili del Paese in quel clima effervescente degli anni Settanta. Un ventennio prima il “teatro di massa” del Pci aveva portato sui palcoscenici e negli stadi i protagonisti delle lotte sociali: operai, studenti, braccianti, impiegati. Ognuno con le proprie ragioni, ognuno con la sua storia da raccontare.

Altri tempi. Il Paese è cambiato, ma certi problemi sembrano resistere nei secoli. Da allora attori, registi, drammaturghi sono tornati ad occuparsi di lavoro soprattutto agli inizi degli anni Duemila quando il teatro d’impegno civile ha vissuto il suo momento più florido. Basterebbe ricordare “Fabbrica” di Ascanio Celestini, “Scintille” di Laura Sicignano con Laura Curino, “FiatO sul collo” di Ulderico Pesce, “Capatosta” di Gaetano Colella e Enrico Messina, “Perché il cane si mangia le ossa” di Francesco Suriano, con Emilia Brandi e Carlo Marrapodi, ex operaio della Thyssen Krupp, che miracolosamente si salvò quella notte di dicembre del 2007 quando la fabbrica andò a fuoco. A quella vicenda è dedicato anche il più recente “Acciaio liquido” di Marco Di Stefano con la regia di Lara Franceschetti. E poi c’è stato “La classe operaia va in Paradiso” di Paolo Di Paolo con la regia di Claudio Longhi, tratto dal film di Elio Petri.

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Ecco, gli operai, appunto. La fabbrica, il lavoro, stanno tornando ad essere questioni centrali oggi, in questa pandemia che ha stravolto le nostre vite, ripartite solo parzialmente dopo il primo lockdown. Da una promessa fatta proprio in quei giorni nasce il nuovo spettacolo di Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi (compagnia Kepler-452), che avrebbe dovuto debuttare in questo periodo al Teatro Arena del Sole di Bologna, ma che a causa della positività al Covid-19 di alcuni attori è stato rinviato ad ottobre. «Non potevamo restare indifferenti, non potevamo ignorare gli effetti della pandemia e allora ci siamo chiesti: quale testo può dialogare con la situazione attuale? La risposta è stata: “Il Capitale” di Karl Marx», spiega Borghesi. Una lettura fondamentale, necessaria se si vuol capire fino in fondo il sistema di produzione capitalistico, ma anche impegnativa (lo aveva portato in scena qualche anno fa anche Marco Lucchesi). E così “Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto”, drammaturgia e regia di Enrico Baraldi e Nicola Borghesi (produzione Ert), ha cominciato a prendere forma.

«Di lì a poco ci sarebbe stato lo sblocco dei licenziamenti e allora il cortocircuito è scattato subito: cosa sarebbe successo?», continua Baraldi: «Alcuni settori sarebbero stati più penalizzati di altri e così abbiamo cominciato a frequentare i lavoratori milanesi assunti con contratti assurdi, abbiamo testato il caporalato nell’agropontino, siamo andati in tutti quei luoghi in cui c’erano situazioni di lotta, fino ad arrivare alla Gkn, l’azienda metalmeccanica di Campi Bisenzio, vicino a Firenze, che nell’estate del 2021 ha licenziato in massa 422 operai attraverso una pec. La risposta degli operai, la loro mobilitazione, ci ha molto colpiti e così ci siamo presentati alla manifestazione del 18 settembre in piazzale Michelangelo a Firenze». È bastato ascoltare l’intervento conclusivo di Dario Salvetti per decidere. «Di fronte alle parole di quell’uomo, che parlava della Gkn come di una grande famiglia, ho capito che parlava anche di tutti noi. Un giorno ci siamo presentati al presidio, siamo entrati in fabbrica e siamo rimasti lì per mesi, giorno e notte, mangiando spezzatini di cinghiale alla mensa autogestita dal Collettivo di fabbrica e ascoltando le loro storie», aggiunge Nicola. «“I due della Digos”, ormai è così che ci chiamavano». Hanno condiviso tutto, artisti e operai: angoscia, entusiasmo e naturalmente pasti e brandine.

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«Una mattina presto sono arrivata in fabbrica con la mia macchina lavasciuga e ho visto due ragazzi che dormivano sulle brandine», racconta Tiziana De Biasio, addetta alle pulizie della Gkn, dove lavora da 10 anni per una ditta esterna. «E questi chi sono? Mi sono chiesta. Poi hanno aperto gli occhi, ci siamo guardati, e abbiamo iniziato a chiacchierare. Mi hanno chiesto qual era la mia storia, finché la mia parabola lavorativa, dal mondo impiegatizio a quello operaio, è finita nello spettacolo. Eh sì. Ho iniziato a lavorare come impiegata, poi un giorno mi è stato detto: “Ma sì, sbattiamola a pulire i cessi!”». Tiziana sarà in scena insieme ad altri due operai, Francesco Iorio, manutentore, e Felice Ieraci, operaio in catena di montaggio. «Con loro tre è scattata una sorta di “innamoramento”. Dopo aver trascorso molto tempo insieme in fabbrica, ci siamo spostati in teatro, ed è stata una scoperta reciproca», aggiunge Baraldi. L’incontro con il teatro, per gli operai, è stato un incontro inaspettato, «non come il licenziamento, ma quasi», racconta scherzando Iorio, che oggi ha 41 anni, ma ha cominciato alla Gkn (allora era al montaggio) quando ne aveva 17. «Per me la fabbrica è sempre stata una famiglia allargata, ci sono cresciuto. Ricordo quando fui assunto, dopo aver consegnato il mio curriculum a mano. C’era un signore che brontolava, diceva che producevo troppo. Mi fece una partaccia per questo. Dopo tutti questi anni di lavoro c’è una cosa che ho capito: bisogna lottare sempre, tenendo bene in mente che non siamo dei numeri, non siamo delle pedine».

Intanto gli operai della Gkn sono rimasti in assemblea permanente anche dopo l’arrivo di Francesco Borgomeo, che ha appena acquisito lo stabilimento. «Ci siamo accorti che le storie di questi operai sono esemplari, sono storie universali. E Karl Marx ci aiuta a capire la realtà: come funziona questo sistema capitalistico?», si chiede Nicola Borghesi. E così le vite dei tre operai sono state incrociate con i capitoli del “Capitale”. Resta da scrivere il finale di questa storia, che racconta la vita in fabbrica prima del licenziamento, l’esperienza del presidio (e quindi il temporaneo allontanamento dalle logiche del “Capitale”) e il ritorno del “Capitale”.

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Ma la voce dei lavoratori è tornata di recente in teatro anche in altri spettacoli. Uno in particolare merita di essere segnalato: “Gardien party” del regista francese Mohamed el Khatib, andato in scena al Museo Maxxi di Roma all’interno del Romaeuropa festival. In questo caso i lavoratori chiamati a raccontare la propria storia sono dieci custodi, tutti attori, tranne uno, Simona dal Prà, che nella vita ricopre il ruolo di “maschera” (accoglienza pubblico). In ogni Paese viene coinvolto nello spettacolo un attore non professionista, un lavoratore, che racconta un pezzetto della propria storia, del rapporto con quel luogo di lavoro in cui vengono ignorati dai visitatori. Sono invisibili, eppure sono loro, ciascuno con la propria esperienza, a rendere vivi i musei, dal MoMa al Centre Pompidou, fino al Maxxi, certo. Le loro storie, tra l’altro, non sono così diverse da quelle dei tanti lavoratori dello spettacolo, che con il dilagare della pandemia hanno visto venire a galla tutte le criticità del loro mestiere. Ma ancora una volta il teatro ha fatto il miracolo: ricongiungere due mondi, quello operaio e quello artistico, distanti da troppo tempo, per renderli entrambi più forti e meno silenziosi.