La performance come arte della resistenza, in una società pornografica. E gesto politico. Parla la star: “Dà alle donne la possibilità di autoraccontarsi. E rinsalda i legami femminili”

A vederle in scena le signore del Burlesque muoversi suadenti, sorridenti, intriganti, con il boa di struzzo e i ventagli di piume, viene da pensare che l’arte dello svelarsi sia antica come l’Umanità. Da “Salomè danza per me”, passando per i Café Chantant o il Divan Japonaise parigino di fine Ottocento, per arrivare al Burlesque contemporaneo, c’è sempre quel misto di seduzione e disincanto, di erotismo e di gioco che fa del corpo della donna un terreno di appassionata rivoluzione.

A Roma, nel quartiere Pigneto – amato da Pasolini e oggi al centro di una costante gentrificazione – c’è un bellissimo locale, l’Ellington, dove si esibisce Giuditta Sin. «È il nome che mi sono scelta, ed è quello che mi rappresenta di più», dice.

Nelle atmosfere anni Trenta, da kabarett berlinese o da grande locale newyorchese, all’Ellington, come in molti altri spazi, Giuditta Sin si è imposta come una delle grandi star del Burlesque. Incontrarla, però, significa parlare di danza contemporanea, di coscienza femminile, di bellezza, di performing art. Lei rivendica come punti di riferimento le pioniere della danza libera: da Isadora Duncan, a Ruth St. Denis e Loïe Fuller: «Studio danza da quando ho cinque anni. Il corpo è sempre stato il mio naturale mezzo espressivo. E ho scoperto queste incredibili donne, vere anticipatrici di culture e fenomeni che si sono affacciati molto dopo nel mondo, anche dal punto dell’emancipazione femminile. Soprattutto Isadora Duncan è il mio punto di riferimento. Ma quel che mi interessa e affascina di tutte loro è il costante tentativo di riportare la danza in un contesto più spirituale. Dunque una danza non solo “estetica”, legata all’artificio, alla forma, ma che guarda al suo significato primordiale di mezzo espressivo dello spirito». Lo spirituale nell’arte, avrebbe detto Kandinskij: e in effetti la consapevolezza della ritualità delle performance fa spostare la gretta prospettiva anche di un maschio cisgender eterosessuale come chi scrive, il cui sguardo si limita banalmente agli aspetti più esteriori delle coreografie Burlesque. «Questo tipo di spettacolo riguarda il significato originario della danza stessa, che nasceva come mezzo per riconnettersi a energie celesti e terrene. Ricerco quella concezione, in particolare per quel che riguarda il ruolo della donna che, attraverso le danze sacre, poteva attivare forze che avevano a che fare con l’energia erotica. Così, ritrovo un collegamento tra ciò che faccio oggi e l’antichità. Il pubblico assiste a uno spettacolo d’intrattenimento eppure, se corpo e spirito della danzatrice sono in armonia, se l’intenzione è salda, percepisce messaggi ancestrali che appartengono all’immaginario collettivo. Suggestioni che nel tempo sono state contaminate e corrotte ma sono ancora presenti. E si ricrea quel rituale delle origini». Rito pagano, dunque, forse dionisiaco, che però per Giuditta Sin non si sottrae ad un costante impegno politico. Le performing art sono strutturalmente politiche – ce lo ricorda uno studioso come Marco De Marinis nel suo “Per una politica della performance” (edito da Editoria&Spettacolo), così come lo ribadisce Marina Abramovic in ogni sua creazione. Insomma, dice Giuditta Sin, si fa politica anche sui tacchi di scena: «Il corpo è di per sé un fatto politico, ha a che fare con la nostra esistenza, con l’essere nel tempo e nello spazio. E ogni performance è politica, anche il Burlesque, leggero e divertente. Vedere una donna che si toglie qualcosa di dosso, su un palco, è un fatto politico perché influenza il nostro modo di concepirla, di immaginarla. Parlo di donne, perché il mio è un corpo di donna, ma qualunque corpo è politico. E quando si va su un palco, e si rompono degli schemi sociali, lo è ancora di più. Nello spogliarsi si compie un atto di liberazione del sé, da un punto di vista simbolico con il gesto dello spogliarsi, che riguarda anche e soprattutto secoli di concezioni, di ideologie imposte sul corpo della donna».

Insomma, la danza, il teatro, la performance e quindi anche il Burlesque sono un modo di cambiare la narrazione che la donna fa di sé stessa. L’obiezione è che questo tipo di spettacolo sia influenzato dallo sguardo maschile, che voglia gratificare il maschio che guarda. «Non è così: qui mettiamo la donna al centro della propria narrazione», irrompe Giuditta Sin: «Mentre in passato l’erotismo, il fascino, la sensualità femminile sono sempre stati raccontati dagli uomini, il Burlesque, come molte altre performance, offre l’opportunità alle donne di auto-raccontarsi, di dire la loro sul palcoscenico, di essere e vivere la sensualità in prima persona. Una opportunità che poche altre arti offrono, almeno per quel che riguarda l’erotismo».

Forse per questo si moltiplicano le scuole di Burlesque, dove la famosa “casalinga di Voghera” si trasforma gioiosamente in Lily La Tigresse?

«Il Burlesque ha una funzione che non esito a definire “rivoluzionaria” per le donne: quella di liberarsi e provare a re-impossessarsi della propria femminilità, di viverla in modo giocoso, divertente, sereno. Credo che questo sia il segreto del successo delle scuole: la possibilità di riscoprire quella femminilità che molte donne – per il percorso di vita che hanno fatto – hanno trascurato. È un gioco intimo tra donne, che possono sperimentarsi in una rinnovata e ritrovata femminilità. Fino a ricostruire un discorso sulla sorellanza, accantonato per secoli: ci hanno sempre fatto credere che le donne siano tra loro in competizione. Invece possiamo ritrovare un ambito di sorellanza: le donne re-imparano a stare tra loro, a guardarsi a vicenda e, mettendosi così tanto a nudo, si crea una intimità che porta a legami profondi. Le donne imparano di nuovo a stare fra donne».

Viene da chiedersi, allora, cosa sia l’erotismo. Ci hanno provato in tanti a definirlo o a danzarlo. Per Giuditta Sin è chiaro: «È una energia innata all’essere umano. Deriva dalla natura, custode dell’energia creativa. Può assumere sfumature diverse ma sicuramente si distingue dalla pornografia. L’erotismo non mostra sé stesso, anzi crea un mistero, si vela. La pornografia è il contrario, sbatte tutto in faccia: e oggi ha vinto sull’erotismo».

Ce lo spiega bene Byung-Chul Han, per cui la “società della trasparenza” in cui viviamo è ormai condannata: i riti sono scomparsi e non resta altro che una diffusa, scontata, aggressiva pornografia, un perenne esporsi laddove non resta nulla da nascondere perché non c’è più niente da s-velare. Nella stagione del “like” eterno, dell’ottimismo comandato, sembra che anche il Burlesque possa essere una forma di resistenza.

«Siamo una società pornografica, e il Burlesque è un’arte in controtendenza. Certo, è un bene che esista una pornografia femminile, e che possano essere espressi quegli impulsi, ma è importante ribadire il valore dell’erotismo. L’erotico è ciò che rimane celato, ciò che si sottrae alla vista eppure attiva una fantasia: l’atto erotico inizia nella testa di chi immagina. Invece quando tutto è mostrato, esposto, ingigantito come nel porno, si arriva all’annullamento del desiderio sessuale che, venendo a mancare il discorso erotico, svanisce. Non è un caso, credo, che la nostra società vada verso una diffusa asessualità. Non si fa altro che parlare e mostrare sesso, ma se ne pratica sempre meno. L’erotismo ci ricollega a quel rituale antico ed eterno di cui parlavamo. Invece ci troviamo a vivere dei simulacri di sessualità svuotata di senso».

Anche per questo, viene da pensare che Giuditta Sin abbia incarnato icone dell’erotismo, come le splendide donne raffigurate da Giovanni Boldini: «I miei spettacoli nascono da una visione, un sogno, che voglio manifestare nella realtà. Cerco delle atmosfere specifiche da ricreare, in cui voglio trascinare lo spettatore. Per questo mi avvalgo degli strumenti, come i costumi di scena, fondamentali per evocare una certa estetica: quel che indosso ha importanza, specie in un omaggio storico come è stato quello per Boldini. Poi c’è la parte più importante, la coreografia, il lavoro del corpo, ossia quel movimento nello spazio che concretizza il processo creativo. E infine interviene la musica: uso spesso musica classica, ma anche musiche tribali o altre composizioni, come recentemente le canzoni di Laura Betti».

Resta sul piatto la questione femminile, quel tema scottante che, dal #Metoo in poi, è tornato prepotentemente all’attenzione generale. «Da donna ho sostenuto e sostengo tutte queste iniziative. È passato qualche anno dalla nascita del #Metoo e oggi mi trovo a riflettere sul fatto che troppo spesso certi movimenti non fanno altro che riprendere le stesse dinamiche di ciò che vogliono abbattere. Forse si tratta invece di riportare il femminile nella nostra società: non è solo la questione Uomo/Donna, ma di energie del maschile e femminile. Il nostro mondo è stato impostato esclusivamente sulla prima, quindi sull’elogio del razionale, dello spingere, dell’ottenere, del conquistare. Se invece riuscissimo a calibrare l’elemento femminile in tutti gli ambiti della nostra vita, ci sarebbe maggior equilibrio e armonia. L’accoglienza, l’andare più piano, il rispetto, tanti altri elementi sono connaturati all’energia femminile… Insomma, se è ovvio che le donne debbano avere gli stessi diritti degli uomini, in realtà ogni uomo, ogni essere umano deve capire che dentro sé le due energie vanno calibrate. C’è una frase della scrittrice Adele Venneri che dice: “Io non sono venuta qui per sostituirmi, sono venuta qui per unirmi”. Penso questa debba essere l’attitudine di ogni movimento. La bellezza può parlare con modi gentili, con leggerezza, ad ogni singolo spettatore».

E questa arte, come altre forme di danza, di performance, di teatro, non è altro che una via per vivere la propria (e altrui) libertà: allegramente, serenamente, ironicamente, eroticamente.