Perché tendiamo verso le zone remote del cosmo? Risponde lo scrittore olandese, tra i più importanti eredi del New Journalism. In un libro che esplora bene e male, alto e basso, cielo e inferno

«Perché noi umani continuiamo a puntare il naso all’insù, a guardare e ascoltare le stelle? Beh, per sete di conoscenza, per comprendere in futuro ciò che oggi non comprendiamo, per trovare un altro pianeta abitabile una volta consumato il nostro, qualcuno per ego e narcisismo. Le ragioni sono tante, a volte si accavallano». Agris viene da Riga, veste sportivo ed è uno dei tecnici responsabili del Centro radioastronomico internazionale di Ventspils, a qualche decina di chilometri dall’omonima cittadina sulla costa lettone del mar Baltico. Inaugurato il 10 giugno 1967, è stato un centro di spionaggio dell’Unione sovietica, rimasto segreto fino al 1993.

 

Circondato da una fitta foresta, sorge a ridosso della cittadella militare di Irbene, costruita in funzione del centro di spionaggio e oggi deserta. «Qui si faceva spionaggio e si veniva spiati, ma ora facciamo solo ricerca», assicura Argis. Negli spazi esterni del Centro, che oggi fa parte dei più importanti network internazionali di ricerca universitaria, allungando lo sguardo oltre il radiotelescopio parabolico di 32 metri, oltre la statua di Jurij Gagarin, oltre il recinto naturale di un verde scuro, sembrano riecheggiare le domande che sono al centro de “La commedia cosmica” (Iperborea, trad. Claudia Cozzi, 288 pp, 18 euro), l’ultimo lavoro tradotto in italiano dello scrittore olandese Frank Westerman, il più autorevole rappresentante della scuola che lega Ryszard Kapuscinski al New Journalism statunitense. Come in uno dei suoi libri precedenti, “Ararat”, Westerman si interroga sulla tensione ultima, la tensione verso l’alto, ma se lì la ricerca ruotava intorno a una meta raggiungibile, per quanto faticosa – la vetta innevata di oltre cinquemila metri dove, recita la storia, si arenò l’Arca di Noè dopo il diluvio universale –, qui ruota intorno alla «tensione verso l’irraggiungibile: le stelle».

 

L’autore avrebbe voluto lanciarsi «come una monetina nell’atmosfera», ma la sua esplorazione è tutta terrena e prende le mosse da ricordi intimi, da luoghi concreti, da persone conosciute: dalla cupola di osservazione sul tetto del suo liceo, «un mezzo guscio d’uovo bianco come la neve» che frequenta con la compagna Jacinta, dal professor Simon Goverse, «il classico fisico nucleare contrario alle armi nucleari», che teneva lezioni facoltative di astronomia e che introduce i suoi allievi «nel mondo di Christiaan Huygens, un contemporaneo di Isaac Newton che osservando le stelle vide sgretolarsi la grandezza dell’uomo, scoprendo nel 1655 gli anelli di Saturno» e professando poi la sua fede nell’esistenza della vita extraterrestre. E dall’osservatorio radioastronomico di Westerbork, nella riserva olandese di Hooghalen, un luogo amato dall’autore quando era adolescente e dove – avrebbe scoperto in seguito – fino al 1970 c’erano le baracche di legno e le torrette di guardia dello Judendurchgangslager Westerbork. Oggi rimane solo un segmento di binario nella radura del bosco: «Ogni traversina era il simbolo di uno dei viaggi con cui furono deportati più di 100mila ebrei, dal bosco dei sussurri a campi di sterminio come Sobibór e Auschwitz».

 

La cover del libro "La commedia cosmica" di Frank Westerman

 

L’orecchio celeste che scandaglia il firmamento alla ricerca di segnali provenienti dallo spazio e l’ano del mondo, il canale di scolo che portava alla catastrofe, i poli opposti del bene e del male saldati in un tratto gastrointenstinale, risucchiati da uno dei buchi neri sulla carta geografica del Reich Millenario, scrive Frank Westerman. Che con “La commedia cosmica”, una commedia che ha perso ogni ancoraggio al divino, ogni illusione di salvezza eterna e futura, si conferma scrittore coraggioso e tenace. Coerente nella sua esplorazione, qui come nei libri precedenti – da “El Negro e io” a “L’enigma del lago rosso”, da “Pura razza bianca” al più recente “Noi, umani”, tutti pubblicati da Iperborea – del «Giano bifronte dell’umanità». L’indissolubile legame tra bene e male, alto e basso, salvezza e caduta, cielo e inferno. Da qui l’interesse per il «punto in cui il sogno si trasforma in incubo», l’attenzione al momento «in cui compaiono le prime crepe nello smalto». E i continui interrogativi che revocano ogni certezza: «Perché vogliamo viaggiare nel cosmo? Per un senso di vuoto? Perché ci manca qualcosa? Cosa pensiamo di trovare sulla Luna o su Marte che non abbiamo sulla Terra?». E ancora: «Da dove nasce questa pulsione tutta umana a penetrare le profondità dello spazio?». Non è forse una forma disperata di escapismo?

 

Una postura che vale anche di fronte ai cosmo-entusiasti. Coloro per i quali l’assenza nello spazio «di Dio, del denaro e delle armi offre nuove possibilità» alla specie umana, e che proiettano su altri pianeti utopie di palingenesi naufragate sulla Terra. A loro, Westerman chiede: «Chi potrà impedire che un giorno negli insediamenti extraterrestri Caino uccida suo fratello Abele?». E «quante sono le probabilità che, armati delle migliori intenzioni, non creiamo in cielo un nuovo inferno?». Nel più probabile scenario del futuro, scrive l’autore de “La commedia cosmica”, «su Marte ci troveremo di fronte noi stessi».