La fine degli anni d'oro dell'indie. I talent. L'assenza di locali per suonare. I ragazzi che chiedono consigli su quale ufficio stampa assumere e non sugli arrangiamenti. Dialogo a tutto campo con il cantautore che torna con l’album “La musica è finita”. «Dalla non lo capivo. Oggi "Com’è profondo il mare" lo porterei sull’isola deserta»

C’era una volta la musica indie con i suoi santi e i suoi eroi. Autori, cantautori, discografici più o meno squattrinati, produzioni indipendenti. Lo Stato Sociale, Willie Peyote, i Cani, Calcutta. L’età dell’oro della nuova musica italiana ironica e irriverente, a volte introspettiva. Era ieri, sembra passato un secolo. Poi c’era Motta, nome d’arte di Francesco Motta, pisano di nascita e romano di adozione, padre ingegnere e madre docente universitaria. Prolifico fra testi, musica e arrangiamenti, con una marcia in più rispetto agli altri cantautori della scena: con i primi due album, “La fine dei vent’anni” (2016) e “Vivere o morire” (2018), con la collaborazione di Riccardo Sinigallia, deus ex machina di tanti progetti, si è aggiudicato la Targa Tenco per il miglior disco. «Non ci si abitua mai all’emozione di annunciare un nuovo album, sarà che ci metto sempre un sacco di tempo per farli e anche questa volta ce l’ho davvero messa tutta», esordisce il cantautore con un filo di umiltà, come sempre con i capelli ricci lunghi e scapigliati, nel presentare “La musica è finita”, che esce mentre parte il tour (il 9 novembre sarà ai Magazzini Generali di Milano, poi in giro per l’Italia). Sonorità acustiche (“Anime perse”), elettroniche (“Non pensarci più”), ritmi incalzanti che invitano a ballare (“Intervallo”), collaborazioni doc (Willie Peyote, Giovanni Truppi, Jeremiah Fraites, Ginevra). Decisamente un bell’album.

 

Motta, partiamo dal titolo. La musica è davvero finita?
«È come se si fosse chiuso un ciclo a sette anni dall’uscita dal mio primo album. Prima di scrivere “La musica è finita” sono entrato in crisi, tante cose che provavo a dire le avevo già dette e dette meglio. Ho voluto mettere un punto per ripartire con stimoli ed elementi nuovi».

 

Nella sua musica l’idea di fine è ricorrente. Nell’album di esordio “La fine dei vent’anni”, nel secondo “La nostra ultima canzone” e adesso “La musica è finita”. Come una lunga danza sulle macerie.
«Mi affascina l’idea di descrivere la fine. Con la canzone “La fine dei vent’anni”, ma anche con “Mio padre era comunista”, in quel passaggio in cui dico “l’amore per loro è aspettare insieme la fine delle cose”. Man mano che vado avanti, però, le cose che finiscono sono diverse da prima e dunque è come se fosse ogni volta un argomento nuovo. Nell’ultimo anno, comunque, ho lavorato molto su colonne sonore, diversi film mi hanno influenzato. Mi ha colpito molto la scena finale del film “Joker”, in cui il protagonista balla scendendo le scale: sottolinea il passaggio da uomo folle a uomo libero. Distruggere tutto per ballarci sopra, una sensazione nuova e interessantissima da descrivere».

 

La copertina dell'album di Motta "La musica è finita"

 

Una delle canzoni che l’ha resa famosa si intitola “La fine dei vent’anni”. Tra qualche anno si troverà di fronte alla fine dei trenta. Che effetto le fa?
«Un certo effetto, ora che prepariamo “La fine dei vent’anni” per il nuovo live. Le paure di allora sono molto diverse da quelle di adesso, oggi ci metterei la firma. Sento che tutto va molto più veloce ed è come se finalmente avessi superato l’adolescenza. Una fase che per gli uomini dura particolarmente a lungo (ride)».

 

Qualche anno fa la musica indie scalava le classifiche. Oggi sembra scomparsa, risucchiata dal mainstream. Cosa resta di quella esperienza?
«C’era uno spirito sano e molti meno soldi nella musica. Ma il denaro può essere un’arma a doppio taglio. Mi capita di incontrare ragazzi di vent’anni che mi chiedono consigli su quale ufficio stampa devono prendere, più che sull’arrangiamento. Io a diciott’anni non sapevo assolutamente cosa fosse un ufficio stampa. Mi spaventa la loro voglia di arrivare. In ogni caso, sotto l’etichetta di musica indie all’epoca finivano cose molto diverse tra loro. Dal punto di vista armonico e della musica, tante cose reputate indie erano spaventosamente pop».

 

Calcutta ad esempio?
«Lui è sempre stato pop, ma non che sia un’offesa. Erano canzoni cantabili, anche io mi sono ritrovato a fare canzoni pop».

 

Per i giovani artisti affermarsi è complicato. Cosa pensa di XFactor, mentre inizia la nuova stagione? È stata la fucina di tanti talenti, tra cui i Måneskin.
«È lo specchio del fatto che c’è una pericolosissima velocità nel costruire i progetti. Questo mi preoccupa di X Factor, al di là della professionalità altissima di chi ci lavora. Ma la cosa che mi inquieta di più è un’altra».

 

Quale?
«Non esistono più locali dove suonare. Anni fa avrei sconsigliato a un giovane di fare un talent, gli avrei detto di suonare per strada, prendere il furgone e andare in giro per l’Italia, senza pensare ai soldi. Oggi non posso più dare questo consiglio».

 

Nel 2018, in occasione del suo primo grande concerto, all’Alcatraz di Milano, lei urlò che se c’era qualche fascista nel pubblico poteva andarsene. Ora che i nostalgici sono al governo che effetto le fa?
«Lo penso tuttora. Detto questo, non penso che Giorgia Meloni sia interessata a vedere un mio concerto. E il fatto che Matteo Salvini ascolti De André dimostra che esiste il forte rischio che certe persone non capiscano i testi».

 

 

Lei è sposato con l’attrice Carolina Crescentini. Il vostro è anche un sodalizio artistico in un certo senso?
«Carolina è fondamentale, mi aiuta a trovare una via quando non riesco a capire come finire una canzone. Quando faccio ascoltare le canzoni a Carolina e a mia madre mi concentro sul fatto se si capisce o meno quello che ho scritto. E riprovo la sensazione di quando ho iniziato a fare questo mestiere, che mi cambiava le giornate e mi faceva innamorare di più di una persona. In genere quando ascolto una canzone mi concentro sulla produzione, sugli aspetti tecnici. A volte mi capita di allontanarmi dal mio mestiere ed è bellissimo: di solito con De Gregori, Dalla e i Radiohead».

 

C’è una canzone che le ha cambiato la vita?
«All’inizio volevo sentire sono Edoardo Bennato perché le sue storie erano più tangibili, credevo a tutto quello che diceva. Lucio Dalla non lo capivo bene, in particolare la canzone “Caruso”. Poi a un certo punto ho ascoltato “Come è profondo il mare”. Oggi quel disco lo porterei sull’isola deserta».

 

Quando un giorno nascerà, che musica ascolterà sua figlia o suo figlio?
«Non lo so, sicuramente non la mia».