Il grido del teatro di Milano dà l’occasione per tornare sui temi dell'antifascismo. E sul complesso arcipelago di oppositori del regime. Che un saggio di Simona Colarizi illumina

Il grido «Viva l’Italia antifascista!» lanciato il 7 dicembre dal loggionista Vincenzo Vizzardelli, in particolare contro, a suo dire, il presidente del Senato Ignazio La Russa ha creato un caso che ha fatto riemergere una questione annosa. Identificato dopo lo spettacolo da agenti della Digos, ha spiegato che era inquieto per una presenza in netto conflitto con la fedeltà ai principi della Costituzione. «Che c’è stato di male – ha ribattuto – nel mio grido? Capirei lo scandalo se avessi urlato Viva l’Italia fascista!». Nei perduranti strascichi della tempesta mediatica che n’è sorta, cade a proposito il libro di Simona Colarizi, docente emerita di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, su “La resistenza lunga Storia dell’antifascismo 1919-1945” (Laterza). La categoria “antifascismo”, come tutte quelle che hanno a prefisso un “anti-”, include posizioni disparate, accomunate dalla contrarietà a una tendenza o a un regime. Sicché si presta più a circoscrivere un frastagliato fenomeno storico-politico che a istituire una coerente nozione ideologica.

 

Tra i protagonisti della lotta contro l’ascesa del fascismo s’incontrano partiti clandestini, organismi, gruppi, singole figure che chiedono analisi peculiari, non assommate in un universo unitario. Colarizi ha adottato la formula di «resistenza lunga», mutuandola da un saggio di Max Salvadori del 1974 e includendovi processi ed esiti che vanno dal 1919 al 1945, cioè dai primissimi inizi di coraggiosa contrapposizione alla guerriglia finale e oltre, all’elaborazione cioè di una Carta costituzionale che fonde o accosta apporti delle principali correnti attive durante la dittatura mussoliniana. «La storia dell’antifascismo – si osserva nell’introduzione – va […] letta come storia dei tanti soggetti antifascisti che hanno combattuto il regime fascista: i partiti antifascisti le cui radici risalivano all’Italia liberale, le nuove formazioni politiche antifasciste, i giovani antifascisti cresciuti nel ventennio che non si riconoscevano nei vecchi partiti, la generazione dei più anziani protagonisti della prima guerra civile del ’19-’22, ritornati sulla scena nella seconda guerra civile del ’43-’45». 

 

E non andranno dimenticati gli esuli del fuoruscitismo militante, i militari che si trovarono abbandonati dopo l’armistizio del ’43, gli internati nei campi nazisti, la moltitudine anonima di donne e uomini non organizzata in “brigate” o in aree ispirate a esigenti direttive. Un paesaggio complicato, in cui coesistono soggetti forti e deboli: la Chiesa cattolica, prima consenziente e poi reticente, una clandestinità patriottica, negli ultimi mesi bellici le pressioni delle potenze internazionali dominanti. È appropriato «misurare debolezze e sconfitte nella lotta degli antifascisti» che si ritrovarono «impotenti ad abbattere Mussolini»: la caduta del duce fu determinata da una congiura di corona e gerarchia. Sarebbe errato separare in modo drastico gli effetti della clandestinità dalla tragica fase conclusiva come fossero due distinte epoche. L’etica e l’impegno resistenziale non avrebbe ottenuto visibilità, incidenza e vittorie senza l’egemonia costruita dai Cln e dai vari tentativi che ne precedettero l’insediamento. La rappresentazione semplificata di un «popolo in lotta» va ridimensionata non meno dell’etichetta di “Secondo Risorgimento” coniata dai filoni moderati e accettata tatticamente dal garibaldinismo di marca comunista. Non si scopre nulla di nuovo nel mettere in evidenza le marcate differenze dei fini perseguiti da chi progettava una restaurazione riveduta e corretta del modello di democrazia prefascista e da quelli di chi puntava ad una democrazia avanzata o dalla minoranza che sognava l’instaurazione di una dittatura del proletariato sui generis. Tra i cattolici il popolarismo di Sturzo aveva riscosso consensi ma il teorico fu costretto all’esilio e le voci dei Ferrari e dei Miglioli non suscitarono le adesioni necessarie. 

 

Colarizi passa in rassegna con pedagogica pacatezza contatti e culture di un «antifascismo dalle troppe sfaccettature». Impossibile contenere in un armonico alveo una fitta molteplicità di intenzioni. Certi principi erano condivisi, ma l’insieme non privo di insanabili lacerazioni. E scontri interni alle componenti impegnate ebbero talvolta un’asprezza durissima. Basterà citare le misure staliniste del Pc d’I. che portarono tra il 1929 e il 1930 a dolorose espulsioni o allo choc del patto Molotov-Ribbentrop. La svolta profonda si ha con l’arrivo di Togliatti nel marzo 1944, allorché promosse – in sintonia con lo stesso Stalin – un mutamento di clima generale, aperture prima impossibili. 

 

Il fatto è che «le dittature totalitarie imponevano alle masse un consenso fideistico» e sprigionavano una capacità aggregante difettosa nell’azionismo, nei liberali & affini. In questo senso il sistema di rapporti dell’Italia del dopoguerra con le due egemonie, la democristiana e la comunista, antagonistiche in un quadro democratico fu la prosecuzione (mutilata) dello spirito ciellenistico. Nella Costituzione i partiti furono esaltati come pilastri portanti. E ora che sono indeboliti o crollati ed hanno ceduto il passo ad un’invadente personalizzazione che fare? La difesa a spada tratta della Carta irrigidita a dogma non è la riposta adeguata. L’antifascismo da cui proviene delinea un insieme di principi che devono appartenere alla coscienza generale: una premessa non un’ideologia da usare per impedire qualsiasi aggiornamento. La Costituzione non può essere «oggetto – avvertì Stefano Rodotà (1995) – di operazioni nostalgiche […], visto che finiscono per fondarla esclusivamente nel passato, quasi che oggi non vi sia più terra per le sue radici». Benvenuto sarà – quando ? – il giorno in cui un battagliero loggionista griderà «Viva l’Italia!».