Ancora all’inizio del 900, era considerato una tinta per uomini e ragazzi. Tutto cambia nel 1953 con l’insediamento di Dwight Eisenhower. E con la Barbie

Il colore rosa è sempre esistito. Del resto in molte lingue ha il nome di un fiore, ossia qualcosa che si trova in natura. Quello che però non è naturale è la possibilità di fabbricare altri materiali di colore rosa, come la stoffa o la plastica. Tutto ciò è possibile da quando la chimica e l’industria hanno trovato il modo di colorare qualsiasi sostanza di qualsiasi colore (circa un secolo fa). E le conseguenze sono state portentose.

 

Non c’è dubbio, infatti, che se un marziano guardasse oggi al pianeta Terra sarebbe colpito dalla diffusione di questa tinta: il rosa, da almeno settant’anni, è diventato amatissimo e, più di qualsiasi altro colore, è legato a connotazioni di genere, al punto che la storica del design Penny Sparke ne ha ricostruito con sagacia i risvolti sessisti e il conformismo sotteso. In modo simile l’artista coreana, JeongMee Yoon ha raccontato di essersi trovata spiazzata di fronte alla pretesa della figlia di cinque anni di possedere solo oggetti rosa, un desiderio che nessun bambino ha mai formulato prima della pervasività di personaggi come Barbie o Hello Kitty, e da qui è nato The Pink & Blue Project, una rassegna di foto in cui bambine e bambini si mostrano circondati solo dal loro colore di culto. E tuttavia la differenza tra rosa e celeste attribuita a maschi e femmine è recentissima ed è quanto di più convenzionale si possa immaginare, tanto che nell’Ottocento si faceva esattamente il contrario: il rosa spettava ai maschi perché sentito come una versione addolcita del rosso, tinta focosa e virile per antonomasia; mentre il celeste era il colore delle bambine in omaggio al manto della madonna. Abitudine tanto consolidata che nel 1914 il quotidiano statunitense «The Sunday Sentinel» consiglia alle giovani mamme di vestire i maschi di rosa e le femmine di blu se vogliono essere rispettose delle tradizioni. Ma allora dove ha avuto inizio la rosa-mania?

 

Dobbiamo tornare indietro al 20 gennaio 1953, il giorno dell’insediamento di Dwight Eisenhower come quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. La moglie, Mamie Eisenhower, si presenta vestita con un abito di seta rosa tempestato di duemila strass. Fu un evento. «Mio marito governa il Paese, io governo in cucina», diceva Mamie. Tuttavia fino ad allora non c’era nessun legame tra il colore rosa e quel tipo di femminilità conservatrice: è Mamie che lo impone, comportandosi da influencer ante litteram. La tendenza è lanciata: quello stesso anno Marilyn indossa un abito rosa shocking mentre canta “Diamonds Are a Girl’s Best Friend”; e nel 1957 il film “Cenerentola a Parigi” con Audrey Hepburn si apre con un numero musicale intitolato non a caso “Think Pink”: insomma, negli anni Cinquanta, “pensare rosa” significa essere moderni. Così, quando, due anni dopo, la Mattel lancia la Barbie – il giocattolo di maggior successo della storia dei giocattoli – sceglie come colore quello più di moda tra le ragazze: il “rosa Mamie” che dal quel momento in poi diventa la tinta girly per eccellenza, imitata da tutti i competitor nel mondo dei giochi per bambine.

 

Tuttavia nulla cambia rapidamente come le convenzioni. Oggi in tante e tanti rifiutano il rosa proprio per le sue connotazioni retoriche e stucchevoli; così come tanti e tante lo esibiscono, magari con ironia o come citazione post-post-moderna. Al punto che perfino Barbie è costretta a prendersi in giro, se vuole restare al passo coi tempi.