Installazioni postapocalittiche, robot con le sembianze di cyborg, abitazioni ricavate da container, roulotte, vecchi pullman. Viaggio nella comunità dei Mutoid: «Avevamo capelli strani, odoravamo di diesel e stufa. Qualcuno era intimorito. Oggi siamo cambiati anche noi, siamo quasi normali»

Romagna solatia, dolce paese... scriveva Giovanni Pascoli ricordando la sua terra natia in cui il verde delle colline si perde nell’azzurro del cielo al canto lungo della natura. Ancora oggi, percorrendo la via Emilia in direzione di Bologna, ci vuole poco per allontanarsi dal turismo caotico della riviera e immergersi in questi paesaggi. Ma se all’altezza di Santarcangelo si lascia la via Emilia e si scende verso il fiume Marecchia, qualcosa sembra interrompere il panorama di pace e armonia. Nell’area di una ex cava, lungo la ciclabile che costeggia il fiume, sorge nascosto tra la fitta vegetazione il villaggio di Mutonia.

 

Chi ci si imbatte per caso può credere di essere finito su un pianeta alieno. Installazioni ispirate a scenari postapocalittici si alternano a robot con le sembianze di cyborg in mezzo ad abitazioni ricavate da container, roulotte, vecchi pullman e tutto ciò che può essere trasformato in una casa. Nata nel 1990, quando i primi membri della Mutoid Waste Company, collettivo di artisti fondato da Joe Rush nella Londra degli anni Ottanta, arrivarono su invito del Festival dei Teatri, Mutonia oggi è la base di una comunità di trenta artisti che qui vivono rifiutando i canoni della società contemporanea e trasformando scarti e rottami in opere d’arte.

 

C’è chi li chiama punk, chi postpunk, qualcuno anarchici, altri ribelli. Ma etichettarli è impossibile. «Siamo anarchici nel senso che non abbiamo capi», prova a sintetizzare Andy Macfarlane, musicista poliedrico con corti capelli biondi sempre curati e un’anima punk-rock. Anche se si autodefinisce «la pecora nera del campo perché faccio musica e non arti visive», lo spirito di Mutonia lo conosce bene: arrivato nel 1993 da Glasgow, da allora ha stabilito qui la sua residenza. «Non siamo antagonisti, vogliamo contribuire al cambiamento dimostrando che ci sono modi diversi per vivere». Così a Mutonia gli scarti della società consumistica riprendono vita, trasformati in opere d’arte o riadattati per la vita quotidiana.

 

 

Intorno all’abitazione di Lyle Doghead, che come molti qui preferisce usare il nome d’arte, questo spirito è evidente. Vederlo lavorare nel suo ampio laboratorio, attrezzato di tutto punto, lascia a bocca aperta. Le sue esperte mani si spostano rapide illuminate solo dalla luce che filtra dall’ampio portone. Tagliano, saldano e modificano il metallo per dare vita a opere uniche. Robot costruiti con vecchi pezzi di automobili Fiat sembrano fare la guardia alle sue moto, assemblate partendo da zero, e alla sua bici-sidecar elettrica. «Ho sempre avuto dentro di me questa voglia di creare invece che comprare», racconta con un marcato accento inglese mentre mostra il suo armadio costruito a partire da tante ex centraline Telecom.

 

E forse è proprio questa l’unica etichetta che si può attribuire agli abitanti di Mutonia. La mutazione, da cui deriva il nome del campo (o yard come lo chiamano qui), è la filosofia che accomuna tutti. «Non esiste un manifesto artistico o politico di Mutonia. La loro vita è l’espressione concreta dei loro valori» spiega Elisa Fosforino, in arte Rote Zora, che sui Mutoid ha scritto il libro “Mutate or die” (Agenzia X). «Possono essere definiti come una “comunità di pratiche” per il loro mettere insieme esperienze e competenze diverse per un obiettivo comune: vivere all’insegna della mutazione».

 

Nikki Rifiutile questa filosofia la applica da sempre. Come molti Mutoid ha lasciato la Gran Bretagna per sfuggire alle restrizioni con cui il governo iper-conservatore di Margaret Thatcher reprimeva i fermenti giovanili controculturali di traveller, squatter o punk. Nikki, insieme con tanti compagni, iniziò a viaggiare per l’Europa stabilendosi in campi temporanei dove continuare a portare feste ed arte. «Non è uno stile di vita che si sceglie, è una necessità», spiega molto semplicemente: «Dal momento che tutto è in cambiamento noi dobbiamo imparare a modificare la nostra vita per assecondare i cambiamenti. Siamo tutti instabili». Come lei tanti abitanti del campo vengono da un passato da traveller. Ma una volta arrivati qui si sono resi conto dell’unicità del luogo e si sono fermati trasformandolo nella propria base. «Santarcangelo è un posto che dà molta importanza all’arte e alla cultura, è l’ideale per i Mutoid. Per questo non si sono più spostati» spiega Silvia Superbio, che insieme con Nikki fa spettacoli con il fuoco. Lei a Mutonia è arrivata nel 2020 per far crescere suo figlio Adam, che oggi ha cinque anni, «in un posto pieno di arte in cui possa assimilare uno stile di vita basato sul riuso e il rispetto del pianeta».

 

Anche i Mutoid, insomma, sono cambiati.  «Avevamo capelli strani, odoravamo di diesel e stufa. Qualcuno era intimorito. Oggi siamo cambiati anche noi, siamo quasi normali», racconta Andy ricordando i primi anni a Santarcangelo. Quell’iniziale diffidenza è durata poco. Parlando con i santarcangiolesi oggi è difficile sentir parlare male di Mutonia e dei suoi abitanti. Così, in un comune di poco più di ventimila abitanti, questo esperimento è diventato realtà. «Fa parte del Dna di Santarcangelo» spiega la sindaca Alice Parma, «qui da sempre esiste una spinta alla sperimentazione che genera una necessità di conoscere quello che è fuori». Dal Circal de’ giudeizi (circolo del giudizio in dialetto romagnolo) da cui, nel secondo dopoguerra, un gruppetto di intellettuali santarcangiolesi partì per emergere in tutta Italia per poi ritornare a casa e riportare le esperienze fatte fuori, all’odierno Festival dei Teatri con cui ogni estate la città si apre alle culture più lontane.

 

 

D’altra parte, come ci spiega Elsa, nata e cresciuta a Mutonia con sua mamma Lu Lupan, «anche i santarcangiolesi alla fine sono un po’ matti». E solo dei matti in effetti potrebbero dimostrare tanto affetto per un gruppo di persone che sembrano provenire da un film di fantascienza. «L’amore dei santarcangiolesi è commovente» spiega Lu, arrivata a Mutonia per amore nel 1995 e rimasta folgorata dalla vita e dalle opere dei Mutoid. Oggi anche lei realizza imponenti sculture di rottami ferrosi che campeggiano all’esterno della sua abitazione. Si ricorda bene di quando, nel 2013, il sindaco emanò un’ordinanza di demolizione del campo dopo una sentenza del Tar a cui era ricorso il proprietario di un terreno adiacente. «In quell’occasione», ricorda Lu «la cittadinanza riempì spontaneamente il paese con i cartelli “Mutoid must stay” e si mobilitò con una raccolta firme a cui aderì più della metà dei santarcangiolesi». Un’ondata di solidarietà che spinse la Soprintendenza a riconoscere Mutonia come «un’esperienza rilevante che è entrata nell’identità e nella storia, prima di tutto di Santarcangelo, ma anche nazionale» permettendo così all’amministrazione comunale di ritirare l’ordinanza. Oggi la connessione tra gli abitanti di Mutonia e Santarcangelo trova la sua espressione in un reciproco scambio culturale. Come scriveva il poeta santarcangiolese Tonino Guerra, «nei piccoli mondi c’è tanta bellezza / se noi la salviamo, salviamo noi stessi».