Ritratti

Chi è Christian Greco, il direttore dell'Egizio di Torino che la destra vuole cacciare

di Sabina Minardi   22 settembre 2023

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Dall’Italia all’Olanda, e ritorno. Per approdare al vertice del museo che in questi anni ha rivoluzionato. Parla quattro lingue, ne legge dieci. Ecco chi è il nuovo nemico del governo in questo ritratto del 2019 realizzato da L'Espresso

Il ricordo affiora all’improvviso, come una incidentale senza troppa importanza. Ma mette subito le cose in chiaro: «Un ricordo della mia infanzia? Il gesto di liberare dal cellophane i libri nuovi, all’inizio dell’anno scolastico. È una sensazione viva ancora oggi: mi sembra di risentire quel profumo di carta e di inchiostro che mi investiva. Affondavo in pagine mai aperte, e pensavo con entusiasmo a ciò che di lì a poco avrei scoperto, studiando».È un fil rouge della conversazione la parola “studio”. La bellezza dello studio. Gli anni intensi dello studio. Il desiderio di riprendere a studiare. Lo studio a cui si dedica quando la burocrazia è troppa, gli impegni lo travolgono, le soluzioni non quadrano, e non c’è altra strada da tentare che liberare l’agenda, e rinchiudersi tra i libri.

Christian Greco, 44 anni, direttore del Museo Egizio di Torino, nominato cinque anni fa a un’età da record per l’Italia, travolge con un impasto di passione, curiosità e talento. Che tuttavia sarebbero impressioni passeggere senza due qualità sempre più desuete, da lui fieramente rivendicate: spirito di sacrificio. E l’ostinatezza di dedicarsi a un sogno: «Ho sempre voluto fare l’egittologo. L’ho desiderato sin da quando avevo 12 anni. I miei genitori mi portarono in Egitto, e lì, davanti all’emozione incredibile della Valle dei Re, guardai mia madre e le dissi: Da grande farò l’egittologo».

Così è stato. Origini ad Arzignano, Vicenza: «Sono figlio unico, e siccome i miei lavoravano a tempo pieno sono cresciuto coi nonni. Una fortuna: i loro racconti hanno influenzato il mio amore per il passato e per la storia, che è sempre stata la mia materia preferita». Liceo classico a Vicenza, poi l’ammissione al prestigioso Collegio Ghislieri di Pavia. Nel 1999 la laurea in Lettere classiche con una tesi in Archeologia del Vicino Oriente antico: il sogno si va delineando.

Chiaro, limpido, con quei modi gentili e antichi che hanno reso virale sul web un suo botta e risposta con Giorgia Meloni, che per una promozione verso i visitatori parlanti arabo lo accusava di discriminare gli italiani «a favore di una specifica religione» («Di una lingua, non di una religione: lo sa che in Egitto vivono 15 milioni di copti, che sono cristiani?», le ribatteva), Greco ripercorre gli anni trascorsi fuori dall’Italia dal suo ufficio all’ultimo piano del museo. Dove giganteggia un suggestivo scatto degli scavi di Pompei: anni Trenta, una vasca appena svelata, antichità egizie sul bordo. A sottolineare un gusto diffuso nella Roma del primo secolo dopo Cristo.

«Sono andato in Olanda a 21 anni per l’Erasmus, pensando di starci 7 mesi, ci sono rimasto 17 anni», racconta: «Anni meravigliosi, e faticosissimi. Appena arrivato a Leiden ho avuto l’incontro che mi ha cambiato la vita: con il professor René Van Walsem. Mi presentai per seguire il suo corso di Cultura materiale. Mi rispose che sarebbe stato impossibile: era avanzato, si svolgeva in olandese, sarebbe iniziato dopo poche settimane. Era il 7 gennaio, il 30 iniziavano le lezioni, mi sono iscritto quel pomeriggio stesso a un corso di olandese e ho studiato giorno e notte: al termine ho ottenuto un punteggio di 9 e mezzo, e il primo giorno di lezione c’ero anch’io: non potevo permettere che l’olandese diventasse l’ostacolo tra me e il mio sogno. Per raggiungerlo, ho fatto tutto con rigore: nei weekend compravo il quotidiano e ne leggevo dieci pagine. Annotavo le parole che non conoscevo e le ripetevo per gli altri giorni della settimana. Frequentavo solo persone olandesi».

Non a caso, Greco, che di lingue ne parla quattro, e ne legge una decina, pensa e studia nella lingua dei Paesi Bassi: «È quella che conosco meglio. Che canto sotto la doccia. Ma anche quella che uso se devo dipanare questioni complesse. Probabilmente averla acquisita con tanta volontà l’ha resa davvero mia», dice, riconoscendo il sapore delle cose conquistate.
«Ho fatto molti lavori mentre studiavo, incluse le pulizie. Finivo le lezioni, e mi spostavo a lavorare nel campus scientifico. Sono stato portiere all’Hotel Ibis, guida al museo. Quando il mio olandese è diventato buono ho cominciato a dare lezioni di latino e greco».

Nel frattempo, gli studi proseguono. A Leiden ottiene il Master in egittologia. All’Università di Pisa il dottorato di ricerca. La nomina a direttore del più importante museo egizio fuori dall’Egitto, tra oltre cento candidati, arriva mentre insegna Archeologia funeraria egizia e archeologia della Nubia e del Sudan.

«Una gioia incredibile. L’Italia mi mancava molto. È vero che avevo coltivato i miei obiettivi con disciplina. Però la nostalgia di casa era tanta. Stare all’estero mi ha insegnato a guardare le cose diversamente. Per esempio, io che in Italia sono considerato un giovanissimo direttore, in Olanda sono sempre stato il più vecchio. A 34 anni ero diventato curatore del museo archeologico di Leiden: chi mi aveva preceduto aveva avuto lo stesso incarico a 23. Dovrebbe essere un obbligo per i giovani trascorrere qualche anno all’estero: apre la mente, insegna la tolleranza. Io che sono cresciuto in Veneto, dagli olandesi ero considerato uomo del Sud. All’inizio non lo capivo: pensavo alla Pianura Padana, alla nebbia, e mi sentivo dire che a Pavia respiravamo l’aria del Mediterraneo. Credo che relativizzare la complicatezza del mondo sia utile per comprenderlo».

Allontanarsi per vedere meglio. Col risultato di sentirsi cittadino del mondo. Casa dov’è, allora? «Casa è Torino, ma ho tanti luoghi dell’anima. Vicenza, dove ho vissuto per 18 anni. E Pavia: gli anni al Collegio Ghislieri sono stati decisivi per la formazione, ma anche per le mie amicizie. Ovviamente Leiden. E poi l’Egitto. Non so spiegarlo, ma quando arrivo in Egitto, con un volo che atterra tardi, scendo dall’aereo, prendo un taxi e mi sento a casa», dice, sorridendo al richiamo di una terra, colori luce profumi: al fascino di una cultura.
«Su di me l’Egitto ha un potere catartico, mi cura l’anima, mi dà lezioni di convivenza e di vita. Forse perché è un Paese dove si respira ancora una dimensione spirituale, che mi affascina. Il Cairo è una città che adoro, metropoli contemporanea e insieme mediorientale, che nel passato ribadisce la sua identità. Città forte, difficile, con molte sacche di povertà, ma al tempo stesso attratta dall’Occidente e dallo sviluppo tecnologico».

Città di contrasti, certo. E di fratture clamorose, tra modernità e tradizione, sul fronte dei diritti e dei principi democratici. «È vero. È un Paese che cerca la sua strada, complesso, con una terra coltivabile ridotta, una popolazione concentrata, fasce di povertà estese, che pure riesce a garantire scolarità e sanità a tutti, ad esempio. Ma torno a ciò che ho imparato dai miei 17 anni fuori dall’Italia, nei quali molte volte ho sentito sulla mia pelle il pregiudizio - «Sicuro di essere italiano?», mi dicevano, «lavori come un tedesco!». Non mi piace dare giudizi e criticare una società da fuori. Per me Egitto vuol dire anche Luxor. E la Valle del Nilo, il caldo, la vegetazione che contrasta col deserto. E quei magnifici monumenti che abbiamo la fortuna di avere ancora, che continuano a interrogarci e ai quali cerchiamo di dare risposte. Uno dei luoghi più belli al mondo è Assuan. Da lì puoi arrivare a Philae, e a Kalabsha...».

Parla, e sorride con gli occhi il direttore. E lo sa: «Ci sono arrivato da bambino, forse mi è rimasto dentro un po’ quel fanciullino: uno stupore che riprovo sempre. Abbiamo la fortuna di avere uno scavo a Saqqara e di collaborare con gli egiziani. C’è un rapporto forte con loro, che va oltre le differenze culturali: siamo tutti lì per fare in modo che questo patrimonio sopravviva». Saqqara, trenta chilometri a sud del Cairo, una piramide a gradoni fatta costruire dal faraone Djoser nel 2650 avanti Cristo all’orizzonte. E un deserto per seppellire gli ufficiali dell’antico Egitto, intorno. L’orgoglio del direttore, che lì torna a fare l’archeologo, grazie alla missione del suo Museo e del Rijksmuseum di Leiden. «Sono fiero di questo scavo», dice, appena reduce dal sito: «La mia settimana di scavi è irrinunciabile. È un momento nel quale riprendo contatto con la disciplina e con la cultura materiale. Ho fatto l’egittologo perché sono curiosissimo di questa civiltà. Voglio studiarla e comprenderla il più possibile», dice, prima di allineare i successi del museo.

«Sono a Torino da cinque anni, ma mi sento all’inizio del percorso. I risultati sono il frutto di una perfetta coesione tra direzione e presidenza della Fondazione Museo delle Antichità Egizie: Eveline Christillin è una donna che sa fare squadra, e questo ci ha portato a condividere gli obiettivi. Per primo, trasformare questo luogo in un ente di ricerca. Non c’era niente, ora esiste un dipartimento Collezione e ricerca, con dieci curatori. Abbiamo creato la rivista del Museo Egizio, Rime, on line, scaricabile, che riunisce le pubblicazioni scientifiche. Ho firmato oltre ottanta memorandum di intesa con università italiane e straniere: l’ultimo è “Crossing Boundaries”, con Basilea e Liegi, per studiare la nostra straordinaria collezione di papiri. Un museo tanto importante ti consegna un’enorme responsabilità: dobbiamo studiare e conservare. Un principio costituzionale, sancito dall’articolo 9: la Repubblica, cioè lo Stato in tutte le sue articolazioni, cioè noi cittadini, promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca tecnico-scientifica. C’è sempre stata profonda spaccatura tra tutela e valorizzazione, ma la cosa che conta di più è la ricerca. Se non conosciamo il patrimonio non possiamo preservarlo e comunicarlo. Io amo usare la parola cura. Come ci si prende cura del patrimonio? Conoscendolo, conservandolo, comunicandolo».

Raddoppiato negli spazi nel 2015, rinnovato dopo anni di lavoro, il Museo Egizio incarna oggi una filosofia di apertura alla città. E le politiche di accoglienza che fecero insorgere la leader di Fratelli d’Italia proseguono: «Questo museo appartiene a tutti. Non è un mondo sospeso, è un ente dove ci sono donne e uomini che fanno ricerca. Reattivo a tutti i cambiamenti della società. Se il museo appartiene a tutti, è anche di chi al museo non può venire. Per questo abbiamo stabilito relazioni con l’ospedale pediatrico. E mai avrei pensato di trovare un’alleata importante nella casa circondariale di Torino: il direttore, che ringrazio, mi chiamò per fare una lezione ai detenuti. Da lì è iniziata una collaborazione che ha portato i detenuti a realizzare repliche perfette dei nostri reperti, come questi geroglifici» dice, mostrando un papiro.

Poi il direttore allinea i suoi desideri: «I torinesi sono il 23 per cento dei visitatori. Ma questo non è il museo da visitare una volta nella vita: vorrei che tornassero almeno una volta all’anno. Vorrei che tutti gli egiziani in Italia sapessero che questo museo esiste, e che qui ci si prende cura di oggetti patrimonio dell’umanità. Vorrei che il Museo Egizio riuscisse a ottenere il riconoscimento di luogo di formazione, come l’École du Louvre. Saldare luoghi della cultura e accademia potrebbe attrarre studenti dall’estero: a Pompei, al Colosseo, all’Egizio. Vorrei coinvolgere di più i giovani. I dati Ocse ci dicono che i musei subiscono un calo d’attenzione tra i 20 e i 45 anni: bisogna farli percepire come luoghi di arricchimento, non stantii».

Al secondo mandato - «dovrei arrivare al 2024», Greco ha in vista il bicentenario del museo: «Ci stiamo preparando ai festeggiamenti. Due anni prima c’è il bicentenario della nostra disciplina: duecento anni dalla “Lettre à M. Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques”, del 14 settembre del 1822, con la quale Jean-François Champollion ebbe l’intuizione che avrebbe cambiato la comprensione dei geroglifici -«Je tiens l’affaire!», ho la soluzione, gridò. Sempre nel 2022 si festeggerà il centenario della scoperta della tomba di Tutankhamon».
Accordi col Canada, con gli Emirati Arabi, col Sudamerica: viaggia in continuazione, Greco: «Momenti miei? Pochi. Leggo, rileggo. In questo momento “I fratelli Karamazov”, l’analisi psicologica degli scrittori russi è insuperabile. Se col tesoro nel quale vivo ho qualche rapporto speciale? Mi sono occupato di testi cosmografici del Nuovo Regno. Al museo c’è una collezione di sarcofagi gialli interessantissimi. Ma se mi chiede se ho un legame emotivo con un reperto in particolare: sì, è con la tomba di Kha». La tomba di Kha e di sua moglie Merit, ritrovata intatta nel 1906 negli scavi della necropoli di Deir el Medina, Tebe, con le mummie e l’intero corredo funerario. «Se ho avuto una giornata difficile, se sento il peso di una decisione, faccio un giro prima di andare a casa per le gallerie. Passo davanti a questa tomba, rifletto sul messaggio immortale che ci lancia, e vado a casa più sereno».

Cattolico, socratico. E alle prese col tempo: «So di sapere poco. Ripenso spesso al testamento di Paolo VI, scritto a Castelgandolfo, quando stava iniziando la sua agonia. Prossimo alla fine, il Papa scrive: «Quanto più avrei voluto apprezzare il tempo, per leggere i grandi del passato, per riflettere sui filosofi, ascoltare la musica». Era un uomo di fede: ma prima di arrivare dal Padre, avrebbe voluto capire».