Gli studi su Nietzsche e Heidegger. L’apertura al postmoderno. La sfida al dogma del metafisico. La voce originale e potente del filosofo. Per anni sulle pagine de L’Espresso

Ancora oggi ricordo lo sguardo indignato del mio professore, Dietrich Böhler, all’università di Berlino. Siamo nel 1990. Il muro di Berlino era appena caduto, e dovevo esporre in seminario i punti essenziali della mia dissertazione sul dialogo, anzi lo scontro tra: “Gianni Vattimo versus Karl Otto Apel. Il problema della metafisica e della Fondazione”. Non appena delineo l’interpretazione che Vattimo dava della figura di Zarathustra, il professor Böhler, un apeliano di ferro, mi interrompe bruscamente. «Ma quella di Zarathustra non è filosofia, semmai poesia!». Dal punto di vista di Apel, in effetti, e per molti versi anche del più famoso Jürgen Habermas, nel suo profetico lirismo Nietzsche avrebbe tradito il vero compito dei filosofi. Quello di fornire una rigorosa “fondazione trascendentale” del pensiero e della comunicazione. Era precisamente quell’idea di filosofia come razionalità “forte” e disvelante le ultime strutture dell’essere che Gianni Vattimo aveva sempre rifiutato. Non è un caso se il suo saggio del 1974 su Nietzsche, “Il soggetto e la maschera”, abbia come sottotitolo: “Nietzsche e il problema della liberazione”. Certo, a metà anni Settanta anche Vattimo risentiva alquanto delle ondate di un neo-marxismo con cui tinteggiava Nietzsche. Ma al centro del suo dialogo con “La gaia scienza” nietzschiana c’è l’esigenza di smarcarsi dalle pretese “normative” della metafisica. Di liberarsi dalle varie maschere di una razionalità che, da Parmenide e Platone all’idealismo hegeliano, punta a decifrare una volta per tutte schemi e contorni della realtà.

 

Il verdetto nietzschiano, “Dio è morto”, significa la fine di tutte le ambizioni di decodificare le strutture e meccaniche della Storia. Al di là degli astrusi deliri razzisti con cui i nazisti ne hanno infangato i testi, per Vattimo la matrice più produttiva dello Zarathustra era appunto la novella dello “Übermensch”: l’Oltre-Uomo che va oltre ogni “Weltanschaung”, le teorie totalizzanti del mondo. E in questo Vattimo, oltre alla lezione anti-platonica ed anti-metafisica di Nietzsche, fece sua anche quella di Karl Löwith “sulla fine e significato della Storia”.

 

La “forza” e attrazione del “pensiero debole”, oltre al famoso saggio da lui curato e pubblicato nel 1983 con Pier Aldo Rovatti (con interventi fra l’altro di Umberto Eco o Maurizio Ferraris) si basava quindi su due mosse, ben congegnate fra loro: da un lato mettere a nudo, sulla spinta di Nietzsche, i vani miti e ottimismi della razionalità e tecniche della Modernità. Dall’altro, aprirsi in pieno postmoderno ad una impostazione più leggera ed “ermeneutica” della Verità. Dopo aver assorbito a Torino l’esistenzialismo più puro con Pareyson, è questo il fulcro propulsivo che Vattimo scopre nella nozione di “Geworfenheit”, la nuda e cruda “gettatezza” della vita su cui Martin Heidegger ha centrato “Essere e tempo”. Risale già al 1963 “Essere storia e linguaggio in Heidegger”, il suo primo lavoro su Heidegger; e non è da tutti, a 27 anni, scrivere saggi del genere. Sette anni dopo scrive, per Laterza, la sua “Introduzione a Heidegger”. Anche nella sua lettura di Heidegger Vattimo segue un sentiero originale, personale.

 

Nei primi anni Sessanta si era specializzato ad Heidelberg a stretto contatto con Hans Georg Gadamer e la sua ermeneutica. Nel 1983 è lui a tradurre e introdurre, per Bompiani, le 560 pagine di “Wahrheit und Methode”, l’opus magnum di Hans-Georg Gadamer. Se al partigiano Pietro Chiodi dobbiamo la prima, stupenda traduzione dell’opera giovanile di Martin Heidegger - “Essere e Tempo” del 1927 - è a Vattimo che dobbiamo l’introduzione in Italia del filone-ermeneutico. La coscienza del carattere costitutivo per il nostro stare-al-mondo della (molteplicità) delle “interpretazioni”. Del nostro essere già sempre immersi in sfere di suoni, media e linguaggi, che ci “in-formano” (o deformano) prima e più a fondo di ogni visione “razionale” delle cose. «Tutta l’ontologia, alla fine, non è altro che meditazione sul linguaggio», appunta Vattimo nella sua Introduzione a “Verità e Metodo”.

 

Siamo creature sociali e del linguaggio, insomma. Un altro modo, affine alla “svolta linguistica” impressa da Wittgenstein alla filosofia, per ribadire tutta l’“eventualità” del nostro essere. Ad Habermas si deve il verdetto secondo cui Gadamer avrebbe “urbanisiert” il più selvaggio pensiero heideggeriano.

 

Con le trame del suo “pensiero debole” Vattimo è riuscito a civilizzare e rendere più fecondo sia il pensiero di Nietzsche che quello, a tratti misticheggiante e politicamente reazionario, di Heidegger. Nei suoi ultimi saggi sulla religione Vattimo ha proiettato accenti laici, secolari sulla figura del Cristo, sciogliendolo da ogni dogma ecclesiastico e dalle tossine dei fondamentalismi. Anche queste sono emanazioni che il filosofo torinese ha estratto dal suo lungo e poetico dialogo con la coppia Nietzsche-Heidegger. Persino dopo lo scandalo dei cosiddetti “Quaderni Neri”, con tutto l’orrore antisemita che sprizzava dalle note private di Heidegger, Vattimo ha conservato il suo rispetto per l’ontologia heideggeriana. Negli ultimi tempi anzi tornava a re-interpretare, in chiave vagamente marxista, le categorie di “inautenticità” sparse nella miniera di “Essere e tempo”. Sino all’ultimo per questo Maestro del postmoderno il nemico era uno solo: «La lotta contro il dogmatismo della metafisica». Una lotta sempre più impellente in un’Europa in preda a fortissimi sovranismi.