Senza emozioni
Non siamo più capaci di desiderare in grande
Dietro la grande freddezza di questo presente c’è un Paese che ha smesso di crescere, che non sa più fidarsi. E dove ognuno, per sentirsi meno vulnerabile, guarda solo a sé stesso
L'indignazione, la febbre, il romanticismo, il sogno: dove sono finiti? Se si escludono eccessi fideistici e recrudescenze emotive attivate da improvvisi attacchi liberticidi, è l’inerzia il tratto che più distingue la società: l’incapacità di agire e di proiettare nel futuro sfide capaci di cambiamenti veri e permanenti. Guerre, crisi climatiche, il corto raggio di immaginazione della politica, il ruolo sempre più marginale del lavoro nella capacità di definire le nostre identità hanno generato collettivamente un senso di impotenza che prima ci ha intorpidito, gradualmente ci ha consegnati all’inazione.
E non si tratta di una reazione all’iperattivismo della contemporaneità, per proiettarci in quella “Vita contemplativa” (Nottetempo) fatta di silenzio e di recupero di valori auspicata da Byung-Chul Han nel suo ultimo saggio (“L’inazione possiede una propria logica, un proprio linguaggio, una propria temporalità, una propria architettura, una propria magnificenza – e sì, una propria magia”, scrive il filosofo coreano). Ma di una fuga dalle nostre responsabilità: siamo indisponibili a lasciarci coinvolgere nelle ingiustizie a cui assistiamo, e che invocano un intervento. A spogliarci di uno sguardo ormai assuefatto al sangue, al dolore, ai mondi diversi dal nostro. Di contro, coltiviamo l’indifferenza, seminata lungo un continuo presente, e la esibiamo senza pudore.
Perché questo è il tempo dei desideri minori, argomenta il Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2023: “Non più uno stile di vita all’insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l’agiatezza, ma una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori per garantirsi uno specchio di benessere in un mondo ostile”. Desideri a bassa intensità, “good enough” per usare un’espressione dell’innovation technology: che non richiedono troppa energia, che non mobilitano la collettività, che massimizzano il risparmio.
Del resto, agire e agitarsi per oltre la metà degli italiani, il 56,6 per cento, è del tutto inutile: convinti come sono che forze globali complottino per orientare le scelte politiche anche del nostro Paese. Non solo: se il benessere che conta è quello minuto, individuale, soggettivamente inteso, la comfort zone per ognuno è evitare scelte e gesti scomodi, che trascinino in un confronto impegnativo. E allora meglio delle opinioni argomentate l’afasia di un like o un giudizio definitivo, istintivo, sbrigativo, liquidatorio. Un asincrono vocale è preferibile a una imprevedibile chiamata telefonica. Meglio astenersi, anziché prendere posizione.
Le statistiche di fine anno raccontano un ritorno al viaggio (buona notizia: viaggio è, per definizione, apertura verso l’altrove e verso gli altri); confermano che non si rinuncia a stare fuori casa (a cena o nei locali più che al cinema e a teatro); e che si va alla ricerca di piaceri individuali, con una convinzione precisa: tutti gli investimenti sociali, dallo studio all’impegno profuso nel lavoro, non sono più redditizi. I giovani lo scoprono sulla loro pelle: ma per lo più “rimangono silenziosi, il loro disagio resta imbrigliato nella sfera individuale ed emotiva, sfociando spesso in stati di ansia e di paura”, nota ancora il Censis. Se i ragazzi sono tanto silenziosi è anche perché non sono mai stati così pochi: invecchiamento della popolazione e denatalità hanno determinato l’effetto di eclissarli, sottolinea il Centro studi investimenti sociali. E anche il loro dissenso non fa rumore, perché si esprime in rifiuto: il 21,8 per cento dei giovani tra i 18 e i 34 anni pensa che alle prossime elezioni politiche non voterà; un milione e settentomila giovani tra i 15 e i 29 anni (il 19,8 per cento del totale) non lavorano, non studiano, non partecipano ad attività formative. Siamo al secondo posto in Europa per numero di Neet, con uno stacco decisivo rispetto alla media dell’11,7 per cento, preceduti solo dalla Romania.
Dietro la grande freddezza di questo presente c’è un Paese che ha smesso di crescere, che non sa più fidarsi. E dove ognuno, per sentirsi meno vulnerabile, guarda solo a sé stesso.