L’esordio con “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick, il sodalizio con Wes Anderson e con Francis Ford Coppola e famiglia. I quattro Oscar. E ora il nuovo film visionario “Megalopolis”. La grande costumista si racconta in esclusiva

Andatela a trovare una costumista che nell’arco della sua carriera ha lavorato con Wes Anderson, Francis Ford Coppola, Sofia Coppola, Stanley Kubrick e, per non farsi mancare nulla, Roman Polanski. E ha vestito Jack Nicholson in “Shining”, Meryl Streep in “La mia Africa” di Sydney Pollack, Ralph Fiennes in “Grand Budapest Hotel” di Anderson. Finora Milena Canonero ha vinto quattro premi Oscar dopo un esordio fiammeggiante, quando Kubrick le chiese di disegnare gli abiti di “Arancia meccanica” senza immaginare che il look total white, bombetta e stivaletti neri di Alex (Malcolm MacDowell) e della spietata gang dei drughi sarebbe entrato nella Storia. E ancora, la costumista ha firmato abiti sontuosi come quelli settecenteschi di “Marie Antoinette”, regina di Francia (Kirsten Dunst) di Sofia Coppola e di “Barry Lyndon” (insieme alla costumista svedese Ulla-Britt Söderlund), sempre di Kubrick, con cui ha vinto rispettivamente due statuette. 

Torinese di nascita, nonostante viva da anni tra Londra e Los Angeles mantiene un contatto forte con l’Italia grazie al suo lavoro e alla sua famiglia. Canonero di rado rilascia interviste, ma per “Megalopolis”, il nuovo film scritto, diretto e prodotto da Francis Ford Coppola (al cinema dal 16 ottobre dopo un avvio fiacco al botteghino negli Stati Uniti), ha fatto un’eccezione per L’Espresso. Coppola e Canonero collaborano dai tempi di “Cotton club”, quarant’anni fa tondi, e ora sono impegnati nel lancio del film, apocalittico e visionario, un’epopea romana ambientata in un’America moderna e immaginaria con un cast che include Adam Driver, Giancarlo Esposito e Nathalie Emmanuel. Il 14 ottobre a Cinecittà si svolgerà un omaggio speciale al grande regista italoamericano, che torna negli studi romani dove sono state preparate alcune scene de “Il Padrino Parte III”.
 

Milena Canonero, come è noto “Megalopolis” ha avuto una gestazione lunghissima. Coppola quando le ha parlato la prima volta del film?

«Con Francis abbiamo iniziato a parlare di “Megalopolis” diversi anni prima che cominciasse la realizzazione del film. Per intenderci, avevo da poco terminato “Cotton Club”, girato a New York nel 1982, il mio primo lavoro insieme, e con lui mi ero trovata molto in sintonia. Quanto a “Megalopolis”, all’inizio Francis mi ha descritto la storia: un mondo futuro plasmato da ideali, ambizioni, lotte e contrasti antichi ma anche immerso nella modernità, in cui le persone avrebbero forgiato i propri percorsi all’interno di un quadro filosofico e utopico grandioso. Una vicenda molto americana e metropolitana, ambientata in una sorta di nuova Roma, “new Rome”, che trae origine dalla congiura di Catilina. Quell’incontro fu solo il primo passo verso “Megalopolis”». 

 

Cosa la affascina dell’antica Roma? 

«L’antica Roma non ha fornito solo un punto di partenza visivo per “Megalopolis”, ma anche simbolico. La sfida era fondere questi elementi classici con qualcosa di più lungimirante, attingendo a riferimenti aggiuntivi come il design moderno e la moda urbana. Francis ha sempre descritto il film come “una favola”. E come tutte le prime ispirazioni quello è stato solo un primo passo verso la formazione strutturale e narrativa del film, che si è finalmente concretizzata due anni fa, quando abbiamo cominciato la produzione vera e propria».

 

Cosa la seduce dell’universo visivo di Coppola?
«Quando un regista come Francis Ford Coppola ti chiede di partecipare a un suo film è l’offerta stessa ad attirarti. Gli sono grata di avermi invitato a far parte del suo team creativo e visivo: Francis ha una visione unica, vedere come abbia coltivato il progetto nel corso degli anni è stato di per sé fonte di ispirazione. Ciò che mi ha catturato di più di questo progetto è stata l’ambizione di Francis di fondere grandi narrazioni con complessi studi sui personaggi. Per me è stato un privilegio poter contribuire a un affresco così ricco attraverso il design dei costumi: ho mirato a incarnare il concetto del film, fondendo influenze romane classiche con design futuristici. Il modo di lavorare di Francis è un riflesso della sua carriera. Non è mai stato uno che gioca sul sicuro, ha corso enormi rischi, sia artistici sia finanziari, perché crede nel potere trasformativo del cinema. Essere al suo fianco è stato per me molto importante e gratificante a livello professionale e umano». 

 

Con Coppola ha collaborato spesso a cominciare da “Cotton Club”, film sullo storico locale jazz di New York degli anni Venti, con Richard Gere. Ma aveva già lavorato a “Arancia Meccanica” e “Barry Lyndon” di Kubrick. 

«Sì, vero. “Cotton Club” è stato il mio primo film con Francis e anche il mio primo film in America. Fino ad allora avevo lavorato dalla mia base inglese con il leggendario Stanley Kubrick e anche con Hugh Hudson e Alan Parker. Dopo aver vinto il mio secondo Oscar con “Chariots of fire” (“Momen- ti di gloria” di Hudson, ndr) il grande scenografo Dick Sylbert (il vero nome Richard Sylbert, ndr) mi presentò a Bob Evans, che avrebbe dovuto non solo produrre, ma anche dirigere “Cotton Club”. Quando Bob decise di cedere il film a Francis, con il quale aveva fatto come produttore “Il Padrino - Parte uno e due”, Francis decise di confermare il team che era stato selezionato da Evans. E così, per una pura casualità, mi ritrovai nel film di Francis Ford Coppola! Quel film fu una tra le più belle esperienze che ho vissuto, non solo dal punto di vista cinematografico ma di vita». 

Dopo “Cotton club” il sodalizio professio- nale si è allargato al resto della famiglia: a metà anni Duemila ha ideato i costumi storici di “Marie Antoinette” con Kirsten Dunst, splendido film di Sofia Coppola, figlia del regista, con cui ha vinto uno dei suoi quattro Oscar. 

«Durante quel film ho conosciuto tutti i Coppola, e più tardi ho lavorato anche con loro. Non solo su “Marie Antoinette” di Sofia (Coppola, ndr), ma anche sul film “Paris can wait” della amata Eleanor Coppola (moglie del regista per una vita, fino alla sua scomparsa quest’anno, ndr). E molte volte anche con Roman (figlio del regista, ndr) che dirige spesso la seconda unità sui film di Francis e su quelli di Wes Anderson».
 

E così ha messo radici a Hollywood.
«Dopo “Cotton Club” Francis mi ha chiamato più volte ma i tempi non coincidevano mai. Poi finalmente mi ha coinvolto in altri due film, “Tucker” e “Il Padrino – parte III”. Ogni progetto presentava nuove opportunità e così la nostra relazione lavorativa si è evoluta e l’amicizia con Francis e famiglia si è rafforzata. Attraverso Francis ho collaborato con grandi del cinema come Vittorio Storaro, Dick Sylbert, Dean Tavoularis (scenografo, ndr) e Gordon Willis (direttore della fotografia, ndr). Rari talenti e amici, mi mancano molto».

 

C’è un filo rosso che lega Francis Ford e Sofia Coppola nel modo di fare cinema?
«Ho apprezzato e goduto della mia esperienza con Sofia. Ma, senza ironia, l’unico filo rosso è il colore del sangue che scorre nelle vene familiari. Sofia e Francis sono molto uniti e in continua comunicazione, ma come registi e autori sono del tutto diversi. Ogni regista ha uno stile e un approccio particolare. A partire dal grande Kubrick, che con il mio primo film, “Arancia Meccanica”, mi ha aperto le porte verso la magia del cinema». 

 

I suoi costumi imprimono agli attori un carattere molto forte, al punto da delineare la fisionomia stessa dei personaggi.
«Come molti grandi registi con cui ho lavorato, Francis mi lascia libera di esplorare e progettare i costumi reali e il total look dei personaggi, che inizia dai loro volti appena il cast viene confermato. Il trucco e i capelli sono una parte intrinseca del mio lavoro. La collaborazione con gli attori è fondamentale perché il design dei costumi va oltre la mera estetica: si tratta di consentire loro di vivere pienamente i loro ruoli, di esprimere in libertà le trasformazioni dei personaggi che interpretano e migliorare le loro performance, in sintonia con il concept e la visione del regista». 

 

Immagino che il suo sia anche un lavoro di squadra.
«Nel nostro lavoro è importante avere un buon team durante il viaggio a volte tortuoso che accompagna un film. Eccellenti e fedeli collaboratori come Raffaella Fantasia, Patricia Colin e Marco Piemontesi. Per “Megalopolis” Francis mi ha dato la possibilità di fare una prima preparazione a Roma con loro e continuare ad Atlanta dove abbiamo girato il film, includendo anche tagliatori e modista». 

 

La costruzione dei suoi costumi storici appare filologica, secondo la scuola di Piero Tosi. Rispetto per le fonti, attenzione maniacale ai dettagli. Cosa le ha insegnato? 

«Nei film d’epoca la base filologica fornisce non solo una corretta prospettiva ma sorprende, arricchisce e allarga la visione da cui mi piace partire per seguire poi la mia visione. Non ho frequentato la scuola di Piero Tosi, ma ne ammiro il suo lavoro, che ha ispirato generazioni di costumisti. È stato maestro, non solo per il suo approccio al costume ma per il suo squisito e personale gusto. Attraverso il regalo della sua amicizia, ho avuto il piacere e privilegio di aver ricevuto molti insegnamenti durante il corso delle nostre conversazioni private».

 

La tecnologia, l’intelligenza artificiale, sta modificando profondamente il mondo del lavoro. Per chi disegna costumi è una minaccia o un’opportunità?

«Non si può restare indietro o rimanere fermi. Dobbiamo accettare i cambiamenti e le innovazioni, non solo nel nostro lavoro. Ma averne timore è giusto, per non esserne sopraffatti. Nel mio mestiere cerco di utilizzare nuovi metodi, ma non approvo che siano loro a utilizzare me, che ci facciano il lavaggio del cervello. Mi domando spesso cosa direbbero a questo proposito Leonardo da Vinci, Michelangelo, Dante, Shakespeare, Omero e i grandi pensatori della Storia».

 

Un giorno vorrebbe dedicarsi alla regia di un suo film?
«Ho eseguito diversi piccoli progetti di regia, mi piacerebbe poter realizzare un documentario sulla vita e il lavoro di Piero Tosi».