Marzamemi Book Fest
Stefania Auci: «Siamo tutti voyeur delle vite degli altri. E il pettegolezzo è consolatorio»
La scrittrice amatissima dei Leoni di Sicilia sarà ospite del Festival culturale il 5 ottobre. E in vista dell'appuntamento dal titolo “Tutte le famiglie felici…” racconta il caso editoriale da oltre un milione e mezzo di copie vendute: «Ognuno ha un motivo diverso per amare questa storia»
La famiglia è da leggenda: una coppia di fratelli, Paolo e Ignazio Florio, che a fine Settecento sogna di conquistare il mondo. E ci riesce: vincono tutto, perdono tutto, si rialzano, affrontano sfide, continuano a vivere. Ma certo anche la parabola di Stefania Auci, trapanese residente a Palermo, insegnante di sostegno in un istituto alberghiero, e scrittrice amatissima, caso editoriale da oltre un milione e mezzo di copie vendute, traduzioni in 42 Paesi e consacrazione da fiction televisiva, ha qualcosa di memorabile.
«Come me lo spiego? Non lo so. E devo essere ancora più sincera: ho smesso di chiedermelo», esordisce l’autrice, schiva, una normalità innegabilmente scombussolata dal successo, la tenacia di difendere il privato, la famiglia, il suo lavoro. «Anche sui dati di vendita: non li chieda a me, perché non li so, io non li voglio sapere», taglia corto: «Preferisco concentrarmi sulla scrittura e sul lavoro scolastico. Ci tengo a farlo bene, è una professione che mi dà moltissimo: non facile, anzi, ma molto gratificante. Nonostante in Italia gli insegnanti siano troppo spesso raccontati come una categoria che lavora poco, che gode di una serie di vantaggi, quando invece è la società a non essere amica delle famiglie e alleata della scuola. Molti mi chiedono: perché non lasci l’insegnamento, a questo punto? La verità? È che mi piace moltissimo».
Glissa l’autrice del nuovo Grande Romanzo Siciliano, come da subito l’ha definita la conterranea Nadia Terranova, sulle ragioni dello straordinario successo: «Perché ognuno ha un motivo diverso per amare questa storia: personaggi e intrecci risuonano in modo singolare nelle vite di lettrici e lettori, non c’è una chiave di lettura univoca» dice.
E non a caso l’appuntamento che la vedrà protagonista al Marzamemi Book Fest, sabato 5 ottobre (in piazza Regina Margherita alle 19,30), si intitola “Tutte le famiglie felici…”: omaggio a Lev Tolstoj e spunto per scandagliare l’attrazione per la famiglia Florio, col loro modo d’essere sicilianissimo (“eh, ma quei Florio non sono veramente siciliani”, era però l’obiezione ricorrente, approdati a Palermo da Bagnara Calabra) e universale insieme. Proprio come quell’incipit di Anna Karenina intende suggerire.
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«C’è una leva che mi sembra abbia fatto la sua parte: la sensazione, leggendo, di spiare l’intimità dei vari personaggi. Pensiamo, d’altro canto, al successo di certi reality televisivi, il Grande Fratello originario o Temptation Island, nei quali tu hai l’impressione di guardare dal buco della serratura - anche se sei consapevole che dietro c’è una telecamera - dinamiche sociali, affettive, relazionali di persone che espongono al pubblico tutto il loro privato. Un libro, anche se con altre caratteristiche, in fondo fa la stessa cosa: mette in pubblico fatti intimi, familiari».
E noi siamo tutti voyeur? «Secondo me sì, e anzi credo che il gusto del pettegolezzo, la curiosità verso la vita degli altri, dei nostri vicini ma anche di gente sconosciuta, sia una inclinazione forte in Italia. Anche con una finalità consolatoria: io guardo le umane miserie, riconosco i fallimenti degli altri e così la mia vita non mi sembra più tanto male se anche le persone che sono dentro un romanzo, o i protagonisti di una serie televisiva o di un reality vivono gli stessi problemi e malesseri miei e magari anche più grandi. Pensate a quanto interesse c’è intorno alla famiglia reale inglese, quanta attenzione ha suscitato il racconto della malattia di Kate o l’ammissione di non voler avere rapporti con la cognata Meghan: quanta gente conosciamo che ha smesso di parlare con la propria cognata o con qualcuno di famiglia? Alla fine col mio libro è accaduta la stessa cosa».
Il riferimento è alle passioni, agli amori clandestini, alle vendette e alle sfide della famiglia Florio, i “leoni” posseduti dai sogni e affamati di potere che la serie tv tratta dai romanzi dal regista Paolo Genovese, prima in onda su Disney+ e attualmente titolo di punta di Rai1, affida a volti noti e amati: Miriam Leone, Donatella Finocchiaro, Ester Pantano (anche lei ospite del festival), Michele Riondino, Eduardo Scarpetta, Vinicio Marchioni. La fiction ha vinto due Nastri d’Argento: «E a me è piaciuta moltissimo. All’inizio mi sono detta che magari alcune sfumature le avrei rese diversamente, però siamo di fronte a due linguaggi diversi, quello narrativo e quello cinematografico: non potevo pretendere un’aderenza assoluta, credo che non sarebbe stata funzionale alla storia. Sono molto, molto felice dei costumi, delle scenografie, delle musiche. È una serie preziosa, sia dal punto di vista visivo che della resa complessiva: la sto vedendo in questo momento per la terza volta e solo adesso noto dettagli bellissimi, come la luminosità e il calore di certe scene». La bellezza abbacinante di una città, Palermo, protesa verso l’Africa e insieme europeissima. La furia di vita e di successo di una famiglia partita dal nulla che creò un impero, dallo zolfo al tonno, dal vino alla navigazione.
Ma a distanza di cinque anni dall’uscita del primo volume della saga, c’è qualcosa che riscriverebbe diversamente? «No», risponde netta Auci: «La cosa bella è stata riuscire a lavorare su questa storia in totale libertà. Ho impiegato due anni a scriverlo, è quello più o meno il mio tempo di scrittura. E non c’è niente che cambierei, neanche una virgola». E una storia rimasta nell’ombra, un personaggio che riproporrà in un nuovo spin-off? «Allora», indugia la scrittrice: «Nei romanzi non cambierei niente. Sicuramente aggiungerei delle cose che sono state tagliate per esigenze di narrazione: altrimenti sarebbe venuta fuori Guerra e Pace. Ci sono all’interno dei libri altre storie che possono essere raccontate, e non è qualcosa che mi dispiacerebbe fare. A cosa sto lavorando adesso? Non posso dire nulla, al momento: ci sono diverse cose in ballo, vedremo cosa scegliere per prima».
Al Festival di Marzamemi, frazione di Pachino, provincia di Siracusa, centrale è ogni anno la riflessione su come proteggere l’identità di un territorio adagiato sul mare, cullato da una tradizione araba, cresciuto su ritmi lenti e naturali, progressivamente assalito da un turismo ormai sempre più massiccio e indiscriminato: come tutelarne la storia, la memoria, l’ecosistema fragile, e proiettarlo nel futuro bilanciando qualità della vita e dei servizi di chi arriva e di chi vi risiede? Destino comune, del resto, a molti borghi non solo del Sud del Paese: da un lato alle prese con l’emergenza overtourism, dall’altro con un paradossale spopolamento. Sorte che accomuna ancor di più i luoghi cresciuti intorno ad antiche e fascinose tonnare, com’è quella di Marzamemi, risalente alla dominazione spagnola del Seicento.
Stefania Auci, riferendosi a quelle di proprietà dei Florio (prima fra tutte quella di Favignana, nelle isole Egadi, acquistata a metà Ottocento), formidabili motori economici e di sviluppo e oggi musei a cielo aperto di comunità cresciute intorno alla pesca e alla lavorazione del tonno, le ha fotografate con magistrale chiarezza: «La tonnara non è solo un edificio, il marfaraggio. È anche un apparato di reti a camere progressive: un metodo inventato dagli arabi e tramandato agli spagnoli, che trova la sua apoteosi in Sicilia. La tonnara è un rito. La tonnara è un luogo in cui famiglie intere hanno vissuto centinaia di anni: gli uomini sul mare, le donne negli stabilimenti. D’inverno, si curano le navi e si rammendano le reti. In primavera e in estate, ci si occupa della mattanza o di lavorare il pescato. Lo chiamano “il maiale del mare”, questo bestione dallo sguardo stolido, perché di lui non si butta via nulla: non le carni rosse e morbide che vengono lavorate, messe sotto sale e vendute in grandi barili. Non le ossa e la pelle che, essiccate e triturate, sono usate come concime. Non il grasso, usato per l’illuminazione. Non il seme, che diventa preziosa bottarga. La tonnara vive perché esiste il tonno».
«In Sicilia ci sono moltissimi di questi gioielli a rischio. Sarò impopolare, ma io sono una grande fan del numero chiuso», dice la scrittrice: «Secondo me, prevedere degli ingressi su prenotazione oppure legare il turismo di questi borghi alla residenzialità in loco sarebbe una buona soluzione. Non per essere elitari, ma per tutelare certe zone pregiate. E non è una cosa troppo strana: sta accadendo ovunque in Europa, proprio per evitare lo sfruttamento selvaggio e il turismo mordi e fuggi. Se questi arrivi da grandi numeri inizialmente possono far bene all’economia di una zona, col tempo finiscono per depauperarla, per sottrarre quell’atmosfera che costituisce il valore aggiunto di un luogo - il suo valore economico più importante - lo spirito di un borgo». L’anima: che Marzamemi, Marsà al-Amem, l’araba rada delle tortore, frontiera del Sud, non ha ancora perduto.