Un omaggio a Pessoa. E un lavoro contro la guerra, con lo sguardo rivolto a Gaza. Incontro con il grande regista Bob Wilson: i suoi spettacoli sono tele su cui dipinge opere dai colori netti

Architetto della luce e del silenzio, inventore di infiniti mondi poetici e visionari fatti di sagome, colori e geometrie. Robert “Bob” Wilson, il regista texano che da oltre 50 anni incanta il pubblico di tutto il mondo, è unico e inconfondibile. I suoi spettacoli sfidano ogni volta l’immaginazione, sono come grandi tele su cui dipinge opere d’arte dai colori netti e di straordinaria bellezza. Oggi, a 83 anni, non ha ancora perso la voglia di interrogarsi su ciò che fa e di condividere con il pubblico il suo pensiero. «Senza la luce non c’è spazio e per me in teatro la luce è essenziale. Resto fedele all’insegnamento di Louis Kahn, che durante il mio primo corso alla Facoltà di Architettura disse: “Studenti, cominciate dalla luce!”. Chi fa teatro in genere sceglie pièce, scene, costumi, prove e infine la luce. Io faccio esattamente il contrario». Così racconta Wilson nella sala Cinese della Reggia di Portici dopo la replica del suo “Ubu” nel Galoppatoio del palazzo monumentale. L’incontro è moderato da Ruggero Cappuccio, direttore artisti- co del Campania Teatro Festival, quest’anno in versione autunnale e con spettacoli e artisti in scena ancora fino al 14 dicembre (tra cui Jan Fabre con “I am a mistake” e “I’m sorry”) .

 

Non capita spesso di vedere i lavori di Bob Wilson in città diverse da Spoleto, Roma, Milano, e lui stesso si stupisce di fronte a una Napoli colorata, trafficata, rumorosa, poetica. Negli ultimi anni i suoi spettacoli sono stati prodotti dal Teatro La Pergola di Firenze. L’ultimo ha debuttato pochi mesi fa, “Pessoa, since I’ve been me”, che dal 13 al 16 febbraio arriverà anche al Teatro Rossetti di Trieste, una produzione Teatro della Pergola e Théâtre de la Ville di Parigi, coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano e altri partner europei. “Pessoa, since I’ve been me”, titolo ispirato a un frammento del “Libro dell’Inquietudine”, è un grande omaggio a Pessoa, alla natura prismatica dello scrittore e poeta portoghese, che si presenta al pubblico seduto al bordo del proscenio, con la sua bombetta, gli occhialini e in doppiopetto, come appare nel “Ritratto” di José de Almada Negreiros. Ricorda un po’ Charlie Chaplin, ma gli abiti nascondono una lei: Maria de Medeiros, che ha recitato, tra i tanti suoi film, anche in “Pulp Fiction” di Tarantino. Tutti gli altri personaggi entrano sgambettando a ritmo di charleston. Ecco i suoi eteronimi pirandelliani, tanti alter ego con una propria storia, personalità, lingua. E infatti parlano al pubblico in inglese, francese, portoghese, italiano e sono Alexandr Search, Bernardo Soares, Vicente Guedes, Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis (interpretati da Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau). Che meraviglia vedere questi straordinari performer seduti davanti ai tavolini allineati mentre sullo sfondo rosso volano sedie e lampade. Colori, parole, poesia, musical (drammaturgia di Darryl Pinckney) si mescolano al rumore della pioggia e del vetro infranto in mille pezzi. Un lavoro leggero e divertente, diverso dai precedenti, anche se fedele alla cifra stilistica di Wilson, andato in scena, tra l’altro, proprio nell’anno in cui ricorrono i 50 anni dalla Rivoluzione dei Garofani che ha portato la democrazia in Portogallo.

 

Uno sguardo più esplicitamente politico e pacifista attraversa “Ubu”, creato diversi anni fa (produzione Es Baluard Museu d’Art Contemporani de Palma). In questo caso si ride della dittatura per stanare meglio l’orrore e denunciare l’assurdità delle guerre e dei totalitarismi, con espliciti riferimenti a Gaza. Cartelli, striscioni, bastoni che diventano lance, manifestazioni di piazza si sollevano contro Padre Ubu, che una volta divenuto re si trasforma in tiranno, ridicolo e grottesco. Ispirato dalle creazioni di Joan Mirò intorno all’universo di “Ubu Roi” di Alfred Jarry, Wilson mescola burattini, animali, voci registrate e danze grottesche, creando “un collage dinamico”, come lo definisce il co-regista Charles Chemin. Una performance più che uno spettacolo, molto low budget, ma anche molto suggestivo. Scenografie e abiti, infatti, sono stati realizzati utilizzando mille copie del Mattino di Napoli. Tutto è fatto di carta, stropicciata, incollata, cucita, fino a creare dei pupazzi che incantano il pubblico di ogni età. In scena Mona Belizán, Biel Morro, Lulu Cormican, Alejandro Navarro, Joan Maria Pascual, Sandrine Penda, Joana Peralta, Sienna Vila, Alba Vinton.

 

«Se avessi frequentato una scuola di teatro, oggi non farei quello che faccio», racconta Wilson: «Il teatro è arrivato per caso nel 1967, quando vidi un poliziotto che picchiava un giovane di colore. Afferrai il poliziotto per un braccio e gli dissi: “Perché lo sta facendo?” Lui mi rispose: “Fatti gli affari tuoi”. “Ma sono affari miei”, insistetti io, e andai alla stazione di polizia con loro due. Durante il tragitto capii che il ragazzo era sordo. Venni a sapere che sarebbe stato chiuso in un carcere minorile. E avevo scoperto anche che non era andato a scuola e che era cresciuto in una comunità, considerato un ritardato, uno scherzo della natura. Decisi di prenderlo in affidamento e la mia vita è cambiata. Nacque così la mia prima opera, un’opera muta lunga sette ore: “Lo sguardo del sordo”. Ho capito che il silenzio è strutturato e che il corpo può udire». Grazie alla frequentazione con Raymond Andrews, Wilson ha imparato a comprendere il mondo attraverso le immagini e a creare spettacoli indimenticabili.