Tutte le ossessioni del regista tornano in “Parthenope”. Ma con la chiarezza della maturità. E la complicità di una protagonista sorprendente

PARTHENOPE

di Paolo Sorrentino, Italia-Francia, 136’

È ora di fare pace con Paolo Sorrentino. Troppo spesso chiediamo ai suoi film cose incompatibili col suo cinema. Gli rimproveriamo l’insistenza, l’oltranza, il compiacimento con cui spende un talento fuori misura. Ma queste sono solo conseguenze di un amore per il mondo che non esclude la consapevolezza, la disillusione, perfino l’orrore per quel mondo e chi lo abita. Cioè noi. Lui, voi, io. Tutti. Che si tratti di Andreotti o di Berlusconi, di un eroinomane esiliato in Svizzera o di lui stesso da ragazzo, ogni volta infatti Sorrentino abbraccia l’intero ciclo dell’esistenza e il corteo di sentimenti che lo attraversa. Come “Parthenope” racconta con una grazia, una felicità, soprattutto una chiarezza, nuove.

Dalla nascita in acqua, come una sirena, ai primi approcci con l’università, dai primi (e secondi) amori agli inevitabili passi falsi, dagli incontri con creature non meno mitiche e ingannatrici a quello, decisivo, con il professore grazie a cui troverà la sua strada (un Silvio Orlando semplicemente sublime), l’incantevole Parthenope vaga, esperimenta, sbaglia, si corregge, scopre sgomenta il potere della bellezza, sempre rifiutandosi di usarlo. Insomma cresce, muovendosi in un mondo che trasfigura tutta una serie di mitologie della Napoli anni ’50, ’60 e ’70 facendone altrettante stazioni di un percorso di (auto) conoscenza che incrocia le prove più frivole e quelle più dolorose.

Gli incontri sono innumerevoli, le apparenze ingannevoli, gli esiti imprevedibili. C’è il fratello tragicamente innamorato di lei, e il corteggiatore che a forza di insistere la possiede e la perde; lo pseudo-Agnelli che scende dall’elicottero a Capri come per riscuotere un tributo, e il vescovo laido ma gran seduttore (colossale Peppe Lanzetta). L’attrice dal viso invisibile (riconoscerete voce e bocca) e la diva sguaiata e aggressiva (un’irriconoscibile Luisa Ranieri). Fra echi di La Capria (“Ferito a morte”, uno dei libri più seminali del ‘900) e di Malaparte (l’amplesso in pubblico dei rampolli di camorra, il figlio mostruoso e segreto), qualcosa magari suona eccessivo o sentenzioso, pensiamo anche all’episodio con Gary Oldman nei panni di John Cheever. Ma la sicurezza delle scelte visive e musicali, la grazia, la malinconia, il coraggio dell’inedita Celeste Dalla Porta, e poi di un’altra attrice adorata che non citeremo, gettano su tutto una luce così dolce, un languore così persistente, che da questa interminabile autobiografia immaginaria si esce pensosi e perfino commossi. La Napoli “vera”, forse, non è mai stata più lontana. Ma Sorrentino mai così vicino.

AZIONE! E STOP

Omaggi e riscoperte. Tra le cose belle della Festa di Roma c’è la sezione Storia del Cinema. Documentari su nomi mitici (Godard, Melville, Delon, Bogart, Cassavetes, Zurlini...), rarità (“Le mani sporche” di Elio Petri, 3 puntate tv), un fotografo-regista pieno di sorprese, Giacomo Pozzi Bellini, al centro anche di una mostra.

I film in sala? Scordateveli. Ted Sarandos, boss di Netflix, non usa giri di parole. Se di un film si parla, perché il nostro enorme pubblico dovrebbe aspettare mesi per vederlo? Le uscite insomma continueranno a essere rare e brevi. Strategia che vince non si cambia. I numeri gli danno ragione. Tutto il resto, torto.