Saggi
Elogio della fatica
"Pensare" di David Bidussa indaga il ruolo dell’intellettuale. Tra nomi e metamorfosi di una figura che affronta le questioni più cruciali. E alle domande replica sollevandone di nuove
Come riemerge oggi, in un tempo di transizione verso ignoti esiti, la questione degli intellettuali? Sembra riproporsi la disputa sul dilemma tra “apocalittici” e “integrati” che Umberto Eco enunciò sessant’anni fa. I toni apocalittici si sprecano. L’integrazione ha assunto le modalità più varie. Una delle traiettorie in voga porta dal fascino carismatico del “maître à penser” alle trovate dell’astuto “influencer” da imbonitore in rete immerso in logiche di mercato. David Bidussa ha ripreso in mano il voluminoso dossier per reimpostarlo ricorrendo a più registri in un libro costruito con un rigoroso sguardo sul Novecento e una puntuale consapevolezza dell’interminabile “querelle”. “Pensare stanca”, edito da Feltrinelli, esplicita nel sottotitolo i temi affrontati: “passato, presente e futuro dell’intellettuale”. L’accezione di “intellettuale” sta qui a indicare chi ha avuto o punta ad avere un ruolo pubblico ricoprendo una funzione teorica alta, da non confondere con il largo significato sociologico attribuitogli da Gramsci. Bidussa muove da due sollecitazioni, una proveniente da Tzvetan Todorov (1939- 2017), allievo di Roland Barthes attivissimo a Parigi e l’altra dall’argentino Tomás Maldonado (1922-2018), artista e filosofo cosmopolita, di fatto milanese. Todorov ha insistito sui mutamenti di postura necessari dopo il crollo del Muro di Berlino, che impone di abbandonare «roba da ideologi, o da agitatori» e ribadiva l’importanza di delineare un impegno pubblico di tipo nuovo, non succube dell’“engagement” sartriano. Maldonado esigeva dall’intellettuale un’inquietudine nemica del “sapere facile”, un pensare “eterodosso”. Sulla soglia della panoramica descritta dall’autore appare Julien Benda, che con “La Trahison des clercs” irrompe nel 1927 schematizzando efficacemente la complessa diatriba. Egli rimproverava a molti aderenti a una metaforica Chiesa di aver tradito la loro vocazione, mettendosi al servizio di politiche in contrasto con basilari, non contrattabili valori. La missione che avevano scelto di svolgere era ribadire ideali che non ammettevano compromessi o addirittura piegata a sostegno di nazionalismi e autocrazie. Invece «i chierici si mettono a fare il gioco delle passioni politiche», scrisse.
A quasi un secolo di distanza da quell’idealistica condanna le condizioni sono cambiate. La crisi della politica e il semi-tramonto delle ideologie hanno minato alle fondamenta lo status di “intellettuale organico” concettualizzato da Gramsci. Evocare un dinamismo organico a una setta o a un partito richiederebbe che questi raggruppamenti in lotta esistessero e fossero dotati di una coerente compattezza programmatica. Lo sfarinamento dei sistemi politici e l’assottigliarsi di marcate delimitazioni ha indebolito o annullato il rapporto simbiotico con intellettuali fedeli agli scopi ultimi proclamati. Ha prevalso una professionalizzazione che frantuma i campi della ricerca e induce a perseguire strategie finalizzate al successo personale, a un mutevole leaderismo. Così la funzione intellettuale soggiace alla tecnica o a smisurati poteri globali. Nella sua densa ricognizione Bidussa passa in rassegna figure canoniche di intellettuali che appella fedeli e figure canoniche di intellettuali radicali. Mentre le prime sono ricomprese tra il periodo antecedente al crollo del Muro, vivacissimo nei gloriosi Trenta (1945-1975), e la cesura dell’89, le altre si collocano nella frastagliata attualità. Fedeltà non sta per conformismo, ma per adesione a una prospettiva di frequente foriera di sofferti dissensi. Walter Benjamin sigla col suicidio (1940) la disperazione di un migrante in fuga: «Non c’è alcun futuro salvifico nella riflessione sulla storia e sul passato, ma solo la possibilità di inventare e trovare nuove vie per non uscire nuovamente sconfitti», commenta Bidussa. Simone Weil, anticipando Albert Camus, si sente spinta a lottare e sperimentare le sue convinzioni ma sa di andare incontro a un fallimento: «Partecipare, sia pure da lontano, al gioco delle forze che muovono la storia non è assolutamente possibile senza sporcarsi le mani o senza condannarsi a priori alla disfatta». Il quasi dimenticato Victor Serge, indotto all’espatrio dalla feroce tirannia staliniana, non cela una triste rassegnazione: «Allearsi a un partito totalitario fortemente diretto e appoggiato dall’esterno significa subordinarsi ad esso» (1945). Hannah Arendt individua l’elemento che tiene su i totalitarismi: è la paura che confina alla solitudine ed eccita l’individualismo. Albert Camus, in polemica con Mauriac, invoca (ottobre 1944) la dignità di «un oblio ragionato degli errori comunque commessi da tanti francesi». La catena prosegue, evocando Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Furio Jesi. E gli odierni intellettuali radicali (come Edward Said, Susan Sontag, Tony Judt, Zygmunt Bauman, Tzvetan Todorov), ormai osservatori al pari di tutti, che strada hanno da imboccare? È Todorov a suggerire all’Europa la via più valida: una sua feconda presenza potrà consistere «nella sua maniera di gestire le diverse identità che la costituiscono a livello regionale, nazionale, religioso e culturale, accordando loro uno statuto nuovo e traendo profitto da questa pluralità».