Colossali colonne, rovine di epoca romana, templi grandiosi. Nella città del Libano si trova un importante e antico sito Unesco, colpito dagli attacchi israeliani. E il turismo è solo un ricordo

Il Paese ritornato scenario di guerra, fra Israele e Hezbollah, è protagonista di una storia lunghissima e tormentata. Affacciato sul Mediterraneo, poco più piccolo del nostro Abruzzo, il Libano è stato sempre meta di conquiste da parte di popoli stranieri, sin dalla sua configurazione nel I millennio a.C. come Paese dei fenici. Assiri, babilonesi, persiani, macedoni di Alessandro Magno, egizi, romani (e poi bizantini, arabi, ottomani....) desiderarono dominarlo per l’importanza della rete commerciale espansa nelle sue colonie, la produzione della porpora, i famosi cedri, con il cui legname fu costruito il tempio di Salomone a Gerusalemme. Determinante è stata comunque la strategica posizione territoriale, in quel Medio Oriente che tanto ha dato allo sviluppo della nostra civiltà ma che non riesce a vivere in pace. Gli ultimi bombardamenti israeliani, oltre a provocare vittime umane, hanno messo a rischio simboli del Patrimonio Unesco, alla base di un turismo internazionale, come Baalbek. La cittadina, distante 65 chilometri a est di Beirut, ricalca nel nome la divinità maschile più venerata in antico da cananei e fenici: Baal, signore del cielo, delle tempeste, della pioggia fecondatrice e della Beqaa, la pianura ancora fertile ai nostri giorni. Aveva un importante santuario, si crede con funzione pure oracolare, dove oggi si eleva l’area archeologica sacra che domina l’abitato moderno (oltre 1000 metri sul livello del mare). Il complesso architettonico è stato appena sfiorato dalle bombe, ma ha subito gravi danni il Centro di accoglienza realizzato dagli italiani, fresco di inaugurazione, mentre gli abitanti si muovono tra i resti delle case crollate. I resti antichi di Baalbek, pur oggetto di rapine e trasformazioni nei secoli, sono sinonimo di maestosità. A cominciare dalle colossali colonne, in cima a un’ampia gradinata, che introducono i visitatori a un cortile esagonale e, di seguito, alla grande corte fiancheggiata da porticati, tra rovine di edifici dalle esuberanti decorazioni.

 

I romani hanno lasciato l’impronta urbanistica che ancora possiamo ammirare, risalente soprattutto al II sec. d. C., ma tutti gli imperatori hanno voluto lasciare un segno, compreso Teodosio I che vi aveva costruito una chiesa per onorare S. Pietro. In onore di Giove Eliopolitano (Baalbek in età ellenistica si chiamava Heliopolis) fu eretto il tempio più grande della romanità, iniziato da Giulio Cesare e terminato sotto Nerone: era importante saldare in modo vistoso i legami religiosi con la popolazione, essendo la località nella provincia di Siria, difficile da tenere sotto controllo, non lontana dall’Armenia e dal regno partico sempre in ebollizione. Le sei colonne superstiti di questo edificio, sovrastate da un fregio, suggeriscono l’imponenza originaria. A una differente altezza si conserva invece bene il tempio in onore di Bacco, più grande del Partenone, mentre un altro circolare, separato da una strada, era dedicato a Venere.
I nomi divini rimandano a quel pantheon romano che, per opportunità, tutto includeva e assimilava; così Giove Eliopolitano era rappresentato con i fulmini nelle mani al pari di Baal e ai lati due tori come il suo precedente collega indigeno. Il sito ha sempre posto degli interrogativi a proposito della sua grandiosa realizzazione. Sono infatti rimasti a terra, nei pressi della cava dei materiali usati, blocchi di pietra lunghi venti metri, dal peso intorno alle mille tonnellate. Non solo: a rendere unico il gigantesco basamento del tempio di Giove è il cosiddetto trilithon: tre blocchi rettangolari posti sulla sommità di 800 tonnellate ciascuno, mentre quelli sottostanti ne pesano 350 e sono tutti perfettamente combacianti. La cava di pietre dista quasi un chilometro: quali strumenti, dopo la lavorazione in loco, consentivano la rimozione e una messa in opera cosi ardita? Questa costruzione megalitica è stata ritenuta molto antica, al punto che si sono evocate civiltà avanzate di cui si è persa memoria. Senza addentrarci nel dibattito, che riguarda pure i grandi monoliti di Palenque in Messico, ci auguriamo solo che possano rimanere al loro posto.

 

Baalbek non è l’unico luogo di notevole valenza culturale ad aver corso pericoli. Distruzioni provocate da raid israeliani, tra razzi e droni di ambo le parti belligeranti, hanno riguardato pure Tiro e Sidone. Le perle della costa, che conservano vie colonnate, archi, edifici monumentali di età romana, si ricollegano a vicende e miti narrati da storici e poeti come Virgilio. Era infatti di Tiro la Didone rifugiata nell’odierna Tunisia, che fondò Cartagine, s’innamorò di Enea - anche lui profugo di Troia - e, piantata in asso per volere degli dèi, si uccise. Nella ricchissima città di origine, ancora nel V sec. a. C., lo storico greco Erodoto rimase colpito da due piccole colonne in un tempio: una era d’oro puro e l’altra di smeraldi. Tiro odierna, quarta città libanese per grandezza, ha visto fuggire dalle proprie case una parte cospicua della popolazione dopo la pioggia di esplosivi, e anche la città di Sidone, citata nella Bibbia e nei Vangeli, ha subito perdite umane e materiali. Nell’epoca d’oro della sua prima civiltà, dal suo porto uscivano le navi con la prua a testa di cavallo, colme di merci preziose, che percorrevano le coste del Mediterraneo senza temere rivali. La sua posizione, ricercata dalle altre città - piccolo promontorio verso il mare e porto naturale – ne favorì lo sviluppo nella navigazione, diventandone simbolo. I fenici, ricordati nella letteratura antica come popolo di navigatori, bravi commercianti, e anche pirati, nei poemi omerici sono citati proprio come “sidoni”. Tutto il Libano, del resto, è un album di storia che riguarda anche noi, basta sfogliarlo. Molti centri mantengono denominazioni che si ripetono nel nostro quotidiano; per esempio, dalla città Biblos (oggi Jbeil), la parola greca che indica “libro”, deriva la nostra “biblioteca”.Senza dimenticare il grande dono dei fenici: l’alfabeto che
usiamo. Si trattava di un’invenzione più semplice da usare rispetto ai precedenti sistemi di scrittura e più facile da trasmettere, stimolata dal rendere più snelle le trattative mercantili. Furono infatti gli antichi commercianti “libanesi” che, forse a Creta, lo fecero conoscere ai greci; questi aggiunsero vocali e poi i romani lo appresero dai coloni ellenici di Cuma.

 

La capitale Beirut è stata particolarmente colpita dagli ordigni in centro e in periferia, con un pesante lascito di morti e feriti. Non è stato abbattuto per fortuna il museo Sursok, che espone capolavori di arte moderna e contemporanea. Sarebbe stata una beffa: già semidistrutto dall’esplosione al porto del 2020, è stato ricostruito, con notevole contributo italiano, nel bel palazzo dei primi del Novecento. Alcuni giorni fa l’annuncio di una tregua fra le forze militari era stato accolto con sollievo, mentre la gran massa di sfollati si affrettava a rientrare nelle case rimaste in piedi. Dopo le prime violazioni, sono però ripresi gli scontri e il Libano, dopo aver affrontato nel recente passato una disastrosa guerra civile e duri combattimenti con Israele, si ritrova ad allungare il conto dei morti e delle zone urbane ridotte in macerie. Oggi tutti i siti culturali sono chiusi, privando il Libano dei benefici derivanti dal turismo. Appare un sogno il Festival Internazionale di musica e danza, per tanti anni organizzato tra le rovine di Baalbek con suggestive illuminazioni. Qui hanno cantato anche Joan Baez e Sting, suonato le orchestre e filarmoniche più celebri, danzato giusto un anno fa Roberto Bolle: contributi, e riconoscimenti, a un Paese che sembra dover pagare caro l’essere multietnico e multireligioso.